Nei film d’azione, lo dice la parola stessa, c’è sempre un gran movimento: gente che corre, spara, grida, una coreografia umana di gesti compulsi che ben diretta può dar vita a una vera e propria danza filmica. Il crescente utilizzo nel cinema dell’arte del Parkour, una tecnica urbana che consiste nel superare qualsiasi ostacolo con i gesti più precisi e spettacolari, è allora un evidente richiamo a una stretta relazione dello sguardo col corpo che, vero protagonista della storia, invade lo schermo con il suo pirotecnico adattamento ad ogni possibile superficie e struttura architettonica. Brick Mansions è interamente costruito sul Parkour, ogni linea narrativa implica la scusa per una digressione sulle capacità dei personaggi di reagire fisicamente alle avversità. Se ne racconta qui la trama per puro spirito deontologico: in una Detroit ambientata nel futuro la parte perbene della città è stata separata da quella malfamata, rinchiusa fra le mure di un quartiere che solo a nominarlo incute timore nei cittadini onesti. Il posto si chiama Brick Mansions, e al suo interno vivono gli individui più violenti e temibili, cresciuti, tra crimini e spaccio di droga, secondo la legge del più forte,. Qui vive Lino (David Belle, uno degli storici fondatori del Parkour) che tenta di arginare lo strapotere di Tremaine, il massimo gestore del traffico di droga del sobborgo, una sorta di sindaco putativo del Rione. Ma Tremaine è anche l’uomo che Damien Collier (Paul Walker), poliziotto integerrimo, crede responsabile della morte dell’amato padre, motivo per il quale sotto copertura si introduce in Brick Mansions, si imbatte in Lino e stringe con lui una strana alleanza finendo per scoprire che il crimine non ha mai una faccia sola.
La trama in Brick Mansions è solo un espediente che fa uso dei più noti cliché del genere d’azione: i poteri forti che abusano della povera gente, la politica che in giacca e cravatta è più pericolosa degli scagnozzi con mitra e coltello e soprattutto quel postulato intoccabile per cui non importa quante pallottole vengano sparate contro i protagonisti, questi con agilità riusciranno sempre a sfuggirle o al massimo a ferirsi quel tanto che basta per assicurare un residuo di verosimiglianza alla vicenda. Ciò che conta qui è la natura atletica del plot, la trasformazione degli edifici in palchi su cui esibirsi. Gli oggetti acquistano vita ponendosi come masse immobili la cui rigidità ed estensione viene sfruttata dai personaggi come punto d’appoggio su cui sviluppare la propria elasticità fisica. Film che predilige il piacere dello sguardo quando coglie e metabolizza via via tutti i rapporti fra corpo e l’ambiente che lo accoglie e gli propone nuovi spunti per esperire la propria capacità di azione, Brick Mansions, che può apparire come un’operetta sopra le righe a uso degli amanti delle botte sul grande schermo contiene in sé, malgrado la sua esteriorità del tutto commerciale e anche abbastanza prevedibile, un’idea di una narrativa cinematografica così volta alla concretezza di ciò che racconta da lasciare lo spettatore magnetizzato da ciò che vede. Oltre a tutto questo, è anche l’ultima film da protagonista di Paul Walker, l’eroe delle spettacolari corse automobilistiche della saga di Fast and Furious, scomparso, macabra ironia della sorte, in un incidente stradale lo scorso 30 novembre: la visione di Brick Mansions è allora anche l’estremo tributo a un attore, e a un cinema, che ha costruito sull’ansia del sangue che batte nelle vene una particolarissima visione della vita.