Un velo che copre il capo, sistemato con riguardo e devozione; Rahima tenta di annegare il dolore in un cambiamento quotidiano, continuo, simbolo di spiritualità ma foriero di emarginazione. Rahima lavora in un ristorante, orari esasperanti, paga modesta. Rahima e Nedim sono fratelli, orfani a causa della guerra in Bosnia dei primi anni novanta. Una Sarajevo buia e intrisa dell’odore ancora fresco di una guerra vicinissima li avvolge con sinistra freddezza, con quel bieco sarcasmo di una città libera che odora di conflitti in ogni anfratto, ad ogni angolo di strada. Vite immortalate con gelido distacco, quelle di Rahima e Nedim, accompagnati dalla mano fredda di Aida Begi? nei loro cammini convergenti, che s’innescano lontanissimi per confluire in una serenità illusoria ed epidermica, quanto vivida e potente come chi trova qualcosa che aveva persino smesso di cercare. Rispetto Snijeg (Neve), il primo lungometraggio della regista, le atmosfere ottimiste, ebbre di quello che la stessa autrice definì un sogno bosniaco sono demolite, esplose sotto i colpi di un tempo inerme, incapace di mutare. Nasce così il racconto della consapevolezza, pronto a liberarsi dell’utopia, seppur straziante come quella delle vedove di guerra del suo primo film, donne dilaniate dal dolore eppure in grado di subodorare l’inizio della fine, solerte altrettanto a mettersi dietro ad una giovane ragazza dal passo svelto, sorella maggiore di due, orfana di madre e padre, lavoratrice e donna di casa.
Le vie desolate e desolanti della capitale bosniaca e l’ultimo giorno dell’anno sono le unità aristoteliche entro le quali la macchina a mano della Begi? s’intrufola con circospezione, scivolando dietro i suoi personaggi con ineffabile accortezza; tra la cucina semibuia di un ristorante dalle losche frequentazioni e i pomeriggi ambigui di un adolescente provato dal suo passato vicinissimo, nel limbo irrequieto che separa la legalità dall’illegalità, in un affetto fraterno esistente ma confuso, schivo. Buon anno Sarajevo è un’istantanea amara e a tratti rassegnata di queste esistenze post-belliche, immersa fino al culmine nella nostalgia di emozioni disattese, di piani elaborati e mai messi in atto. Buon anno Sarajevo è la cronaca – in forma di fiction – di come il piano di rinascita della Bosnia e Erzegovina sia fallito prima ancora di iniziare, lasciato come fu in balìa delle faide interne e di vuoti di potere utili solo agli sciacalli della ricostruzione. Rahima e Nedim sono le pedine che l’autrice ha deciso di muovere, avanzando circospetta in direzione della demolizione di quel sogno di cui sopra: Buon anno Sarajevo è il racconto di un inesistente bombardamento post-bellico, quello che cade lento e implacabile sui desideri di rinascita e di rivalsa, quello che non sopisce ma anzi anima i conflitti musulmano-serbo-croati.
Un ritratto cupo della Bosnia post-accordo di Dayton, che il 14 dicembre 1995 pose fine al conflitto; la rappresentazione di questa Sarajevo post-apocalittica è uno degli elementi che più s’imprimono della visione, un villaggio tetro da western metropolitano, sempre scuro, eternamente minaccioso. Con questa sapienza Aida Begi? costruisce la sua opera, con un racconto fatto di esilissimi snodi narrativi, di visi segnati, di occhiaie e di lividi sul volto di Nedim. Marija Piki? e Ismir Gagula – rispettivamente Rahima e Nedim – si genuflettono al servizio di Buon anno Sarajevo, respingendosi fino a ritrovarsi sotto i colpi di festeggiamenti per un nuovo anno che arriva, ovattando in quel loro rapporto così intenso il difetto più evidente di tutto il lavoro: la sua scrittura marcatamente meno ispirata della sua messa in scena. Ma ci sono il Premio Un Certain Regard di Cannes, il Premio Lino Micciché della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, il Premio Cinema e Diritti umani assegnato da Amnesty International, ci sono loro molto prima di noi a ricordarci che nonostante le sbavature, la Kitchen Film portando in sala questa pellicola ha fatto a tutti noi un bel dono d’inizio anno.