Carol
Haynes mette magistralmente in scena un melodramma omosessuale retrò facendo leva su due splendide interpretazioni attoriali e sulla manipolazione narrativa del colore degli ambienti
Nel negozio di giocattoli in cui lavora, la giovane Therese (Rooney Mara) incrocia lo sguardo di una donna bellissima. Siamo negli anni Cinquanta, il Natale si sta avvicinando e l’elegantissima signora bionda (Cate Blanchett) chiede consigli su cosa regalare alla figlia: una breve conversazione, i guanti dimenticati sul tavolo, e la storia di Therese e Carol ha inizio. Una storia ovviamente proibita, già affrontata dal regista Todd Haynes il cui cinema ha a cuore sia la complessità dei generi sessuali ( dal travestitismo glam di Velvet Goldmine al Bob Dylan frantumato in più personaggi dal sesso, colore ed età differente in Io non sono Qui) sia l’estetica raffinata di un decennio che portava però in grembo i primi germi della ribellione culturale degli anni Sessanta (Lontano dal Paradiso e la miniserie tv Mildred Pierce).
L’attrazione fra Therese e Carol è difatti immediata, consapevole e fin dall’inizio accettata senza remore dalle due protagoniste. È il mondo intorno che la vuole combattere e negare, dal ragazzo che aspira a sposare la ragazza al marito che rifiuta il divorzio dalla moglie, e per punirla usa la sua omosessualità come accusa di immoralità per impedirle di vedere la figlia; un mondo implacabile ma, particolare caratteristico di Carol, allo stesso tempo visivamente stupendo. La scenografia, il trucco, i costumi del film possiedono più che la sola valenza di citare e ricostruire un’estetica fine, minuziosa, glamour – ci vorrebbe una seconda visione solo per notare tutti i singoli accostamenti cromatici fra i vestiti, gli oggetti e gli ambienti – la natura di personaggi a sé stanti che agiscono coprendo col colore e lo stile una dimensione culturale meno libera e gioiosa di quanto potrebbe apparire.
Se Cate Blanchett interpreta un ruolo che è anche un’implicita citazione delle grandi dive degli anni Cinquanta, il suo aspetto inizialmente richiama una maschera quasi eccessiva per l’eleganza e l’affettazione, contraddistinta da un rossetto rosso acceso saturo e lucido, che durante la crescita del rapporto con Therese, la quale spicca fra la folla come un richiamo per il suo viso invece nudo e pulito, vien meno lasciando emergere il suo volto reale. Il piacere del colore, la sua morbidezza appaiono ad un tratto come delle trappole, splendidi veicoli dell’ipocrisia dell’apparire senza esprimere la propria reale identità: nella sottrazione si raggiunge l’onestà. Il viso di Carol abbandona il tocco sapiente del trucco e i suoi ritratti scattati da Therese, che intraprende il mestiere di fotografa, la restituiscono in un bianco e nero epurato dai bagliori cromatici.
Il sentimento che crescendo traspare nel film, inizialmente freddo e artificioso, è il prodotto del graduale svelamento dell’affetto e del dolore interpretato con maestria dalle due attrici protagoniste, ognuna alla presa con l’esigenza di esprimere una diversa personalità spinta dal medesimo trasporto emotivo. Therese si innamora e soffre per la prima volta, Carol ama ma deve pensare anche a sua figlia, tutto sembra separarle mentre i loro sguardi si allacciano. Haynes utilizza il melodramma come agente di contrasto entro la facile attrattiva di un’immagine sofisticata, ma il sentimento è, alla fine tale, tenero e profondo, che non solo si affranca dal colore, ma anzi lo contagia. L’amore diviene la ricerca di un contatto visivo, l’incontro di uno sguardo in mezzo a un posto animato, dove finalmente i colori non nascondono ma celebrano il calore luminoso di un’emozione vissuta alla luce del mondo.