Petit Maman
Céline Sciamma in Petit Maman dissolve i simboli con cui ha costellato i suoi film per cercare immagini più profonde e "giuste" con cui raccontare l'elaborazione del lutto
Il cinema di Céline Sciamma si è riempito di specchi e poi piano piano se ne è svuotato. Sciamma ha identificato fin dai suoi primi lavori lo specchio come un segno schermico efficace, sintetico, un catalizzatore in grado di dire qualcosa del potere dell’immagine in senso lato, qualcosa su come le immagini siano la merce di scambio dell’identità: in Naissance des pieuvrés e Tomboy la superficie riflettente è un segno importante, ossessivamente presente, passaggio di tutto il ragionamento sugli slittamenti di personalità, sulle rincorse del desiderio, sulle proiezioni del sé. Nel primo film della regista tutte le immagini sono pensate per materializzare le rifrazioni di gelosia identitaria della protagonista, almeno fino allo sguardo in macchina finale, che spacca i circuiti creando un’immagine nuova, firmata da una fulminea presa di coscienza. In Tomboy allo stesso modo gli specchi mettono in tensione l’immagine percepita dal sé e l’immagine costruita dagli altri, e quindi dicono delle operazioni di compromesso (sacrificio, rimozione, elaborazione del trauma) operate dall’identità per costruirsi e appropriarsi dei frammenti volatili tra varie forze centrifughe e definitorie.
In questo stress linguistico lo specchio è segno scoperto che porta un’esponente esplicativo nel ragionamento per immagini, ma contestualmente produce aspettative e quindi rigidità: forse per questo in Ritratto della giovane in fiamme Sciamma inizia a invertire la tendenza di traffico simbolico, riducendo la presenza degli specchi al minimo, come a dire della possibilità di ragionare per immagini senza segni evidenti e per rappresentazioni che non siano strategie simboliche potenzialmente condizionate dalla marca di stile o da stilemi. Anche se gli specchi scompaiono non scompare comunque la tensione, o l’intenzione, riflettente dell’immagine: il segno si generalizza in condizione atmosferica, e lo specchio si fa contestualmente non tanto condizione di rappresentazione ma condizione di mondo. L’intuizione è infatti non abbandonare lo specchio ma riconoscere nel mondo stesso l’azione di quella superficie specchiante, riflettente, che mette in crisi e in gioco le immagini dell’identità, o meglio, che traduce l’identità in un’immagine modificabile.
In Ritratto della giovane in fiamme questo passaggio da segno a condizione serve a Sciamma per elaborare attraverso le immagini il tema dell’identità come contratto: non più contratto siglato dalla personalità con i compromessi imposti dalla società, come nei primi film, ma siglato con la coscienza della morte e della perdita. Anche Petit Maman è un film su questo contratto, che si chiama lutto, in cui l’identità fa i conti con la rimozione di una parte di sé, di una parte del proprio mondo, per formarsi; di più, è un film che va oltre le risposte tematiche del Ritratto della giovane in fiamme – che apre al tema con la metaforizzazione della storia di Orfeo ed Euridice tramite il ribaltamento dal punto di vista della donna (“e se fosse stata lei a dirgli di girarsi?” chiede Heloise a Marianne, prefigurando la sua stessa scelta di accettazione) – e trova risposte formali, risposte di puro cinema. In Petit Maman il lutto è questione di immagine: la storia di Nelly, piccola bambina che perde sua nonna e aiuta sua mamma a liberare la casa di famiglia dagli oggetti del passato, non è altro che la storia di un’identità costretta a elaborare una perdita per crescere, a ri-elaborare cioè l’immagine di sé stessa senza una parte che credeva costitutiva.
Quando Nelly passeggia nel bosco che circonda la casa di sua nonna incontra una bambina di nome Marion. Marion è quasi identica a lei, vive con sua madre in una casa del tutto uguale a quella della nonna di Nelly. Le due iniziano a diventare amiche e piano piano si scoprono vicine per la paura della perdita: la mamma di Nelly non sembra volere tornare per aiutare nel trasloco e Marion deve partire per un’operazione importante. Il film a poco a poco svela che Nelly non ha solo trovato un’amica nel bosco, ha viaggiato nel tempo e incontrato sua madre da bambina; il suo viaggio di elaborazione del lutto inizia proprio con questo incontro a specchio, fatto scattare dal lancio di una pallina, in realtà legata a un filo pensato per generare continui rimbalzi su una piccola racchetta, al di là del suo cortile. Il viaggio nel tempo è innescato dalla rottura della ripetizione del gesto di allontanamento (la pallina allontanata da sé, direbbe Freud, per vendicarsi dall’assenza della madre, torna a favore della tolleranza della separazione), e quindi dalla rottura della tolleranza del trauma, e si sviluppa come un incontro impossibile che è “processo incoercibile e di origine inconscia, per cui il soggetto si pone attivamente in situazioni penose, ripetendo così vecchie esperienze senza ricordarsi del prototipo”.
Nelly cerca di fare fronte alla perdita della nonna e all’abbandono della madre facendo esperienza della perdita di Marion, non tanto come amica o piccola mamma, ma come immagine di sé (geniale la scelta di prendere due piccole gemelle per i ruoli): imparando a perdersi, senza poter più contare sul meccanismo di controllo della tolleranza del trauma, la bambina impara a perdere e così forma la sua identità, che è immagine di sé stessa come frutto di quel contratto che è il lutto, cioè la rielaborazione della propria immagine di fronte allo specchio del mondo. Di fronte alla perdita l’identità si trova in tensione tra estremi vivificati al massimo grado, vita e morte, che si dialettizzano nell’esperienza unica e paradossale dell’annullamento. Barthes chiamava questa esperienza “scienza impossibile dell’essere unico” e per lui emergeva dalla visione di una foto della madre da bambina: “avevo scoperto quella foto ripercorrendo il Tempo. I greci entravano nella Morte a ritroso: ciò che essi avevano davanti, era il loro passato. Così io ho ripercorso una vita, non già la mia, ma quella di chi amavo. Partito dalla sua ultima immagine sono arrivato all’immagine di una bambina: io guardo intensamente al Supremo Bene dell’infanzia, della madre, della madre-bambina. Certo in quel momento io la perdevo due volte: nella sua stanchezza finale e nella sua prima foto, che per me era l’ultima; ma è in quel momento che tutto si capovolgeva e che finalmente io la ritrovavo come in se stessa”.
Sciamma sembra portare la bambina di fronte all’immagine di sé stessa come madre perché è lì che Nelly può provare (assieme allo spettatore) l’esperienza dell’annullamento e quindi l’esperienza dell’identità. Il cinema è in se stesso esperienza dell’annullamento, superficie su cui si vede una cosa apparire e scomparire in una sfumatura impregnata di attenzione per la perdita: le immagini sono quindi il modo più proprio di pensare alla scomparsa di ciò che c’era e alla traccia che esso lascia su ciò che resta, perché possono formarsi o sono come vibrazione luminosa in grado di sostenere il passaggio da ciò che è presente a ciò che è assente. Questa assenza che è “più acuta presenza” è il risultato del film, che non si limita a proiettare meccanismi di sottigliezza psicologica ma dice qualcosa sul senso delle immagini per le nostre vite, sul senso del tempo che le riempie. Quello di Nelly non è forse un meccanismo di visione? E non è forse la visione di una bambina una macchina di proiezione luminosa che riscrive la realtà, cinema? Cinema come fragile faglia, soglia, tra immagini che si cercano nel mondo guardandosi allo specchio, e quindi cinema come increspatura che raccoglie le sfasature delle identità, gli scarti e i pieni. Cinema che può apparire freddo, rigoroso, spoglio, e invece non ha più bisogno di segni perché ha trovato "giusto un'immagine", "un'immagine giusta" aperta al passaggio della luce, di ciò che è più caro.