Ritratto della giovane in fiamme
Celine Sciamma ferma nell'inquadratura i brevi momenti di libertà personale e sentimentale di due donne costrette all'anonimato sociale nella Francia del 1700, in un'intensa unione estetica fra sguardo d'amore e sguardo dell'artista.
Arrivata alla sua quarta pellicola Celine Sciamma conferma un peculiare interesse per il senso narrativo dello sguardo umano nel cinema, così come è espresso dai suoi personaggi che subiscono o si ribellano alla dimensione sociale dominante che le opprime. Già in Tomboy e Diamante Nero la regista francese aveva descritto ragazze che, per un momento, riuscivano a eludere le esigenze imposte al loro ruolo femminile da una società patriarcale. In Ritratto di una giovane in fiamme, nella Francia della fine del 1700 la pittrice Marianne si vede commissionato un inedito incarico: deve ritrarre in un dipinto Heloise, giovane promessa sposa restia a un matrimonio imposto dalla madre, e altrettanto ostile verso ogni tentativo di posare per un quadro destinato al futuro marito. Pertanto Marianne dovrà comportarsi da amica con la ragazza e osservala abbastanza da imprimersi i suoi tratti nella memoria per poi disegnarli una volta rimasta sola.
Heloise rifiuta di sottomettersi a uno sguardo di possesso che la spoglia del suo carattere e cancella ogni aspirazione personale, ma gli occhi di Marianne, che nelle loro conversazioni si voltano verso di lei in brevi occhiate fisse, divengono per la ragazza uno strumento per essere vista davvero e poter così iniziare lei stessa a guardare la pittrice, in un disvelarsi reciproco tramite la scoperta dei rispettivi lineamenti, gesti e mimiche abituali. L’artista tramuta la propria visione in un’epifania d’amore, si scopre innamorata di Heloise e come lei priva di vere alternative: è sì libera del peso di un matrimonio obbligato, e lavora per mantenersi, ma la sua apparente maggiore indipendenza si limita al suo essere invisibile, puro occhio che osserva e descrive senza far notare la propria presenza, un anonimato culturale che ha poi contraddistinto la stragrande maggioranza delle sue colleghe dell’epoca. L’amore la costringe a farsi modella e oggetto del desiderio, uno sguardo artistico che diviene sguardo d’amore, liberatore ed emancipante, ma destinato alla sconfitta, come quello di Orfeo verso Euridice, narratole da Heloise.
La coppia si ama sotto lo sguardo candido e muto della serva della casa, che non chiede e non giudica, perfettamente cosciente del suo ruolo subordinato, ma che pur tuttavia rifiuta decisamente una gravidanza indesiderata e si sottopone a un aborto clandestino. Lo sguardo dell’amore diviene per entrambe un’esperienza di libertà, ma nel cinema di Celine Sciamma la gabbia della struttura sociale può allentare ma non sciogliere i nodi morali che istituiscono i ruoli e i doveri dei sessi. La lotta dei suoi personaggi è per un maggior spazio privato entro un perimetro che non può però mai venir meno del tutto. Lo status quo non viene mai scalfito, solo rivelato nella sua struttura oppressiva, pertanto ogni ribellione non può essere radicale né esplicita, solo attuata in forma di potenti parentesi di autodeterminazione: Heloise e Marianne troveranno sollievo e sfogo nella memoria futura del sentimento e degli atti d’amore condivisi, scavando entro l’armatura della propria funzione sociale temporanei rifugi spirituali dove potersi esprimere liberamente, anche solo permettendosi di guardare e pensare, pur senza agire.
Le opere di Celine Sciamma mettono in mostra le manifestazioni delle sue protagoniste come reazioni improvvise e inaspettate di indipendenza, ricorrentemente espresse tramite il potere eversivo del sentimento amoroso. Come sempre questo comporta la rottura del rigido controllo imposto al corpo, che si emancipa nel movimento. Siano la corsa o la danza o l’atto frenetico dell’amore ad agitarne i personaggi inquieti, la volontà di liberazione e l’oppressione sociale convivono in un equilibrio incerto: e se la prima non può vincere la seconda, questa non può annullare l’istintivo movimento umano verso la propria felicità, che può tradursi anche solo nell’ammissione a sé stessi dell’esistenza di desideri propri.