Chi è senza colpa
Dennis Lehane sceneggia un suo racconto e porta nuova linfa agli infiniti Brooklyn Tales, per una storia di malavita ordinaria interpretata da un cast straordinario.
C’è sempre bisogno di Brooklyn, luogo del cinema, terra feconda eppure per sempre incognita. La sua aura brumosa, i palazzoni, i brutti ceffi, i magazzini dismessi, e poi il putrìo, l’umidità, i marciapiedi, il fatalismo che ti si attacca alle scarpe e non va più via. Brooklyn, l’esotica Brooklyn, l’etnica Brooklyn, l’esangue Brooklyn, l’eversiva Brooklyn. Da sempre guardata, prima vivida, poi sbiadita, sfruttata, strangolata, sottratta. Brooklyn senza madreA Most Violent Year e una Brooklyn/Gloria Swanson folgorante dal suo passato immortale. Michael Roskam invece ha puntato alla luna finendo per accecarsi con il suo dito. Questo è Chi è senza colpa, traduzione infelice dell’originale The Drop.
Sì che le condizioni per il colpo c’erano tutte: un regista europeo pregno di malinconia in scale di grigio, uno sceneggiatore scrittore da sempre sulla strada del cinema e del Grande Romanzo Americano – tra Mystic River e Gone Baby Gone e Shutter Island –, due interpreti immensi più uno deceduto non grande ma amatissimo. Roskham Bullhead alla regia, Dennis Lehane alla sceneggiatura da sé tratta (Animal Rescue la novella), Tom Hardy il faro e Noomi Rapace la luce, con James Gandofini a caratterizzare e primeggiare. Gli ingredienti giusti, il posto giusto, e niente. Una storia di ordinaria mala, un bar gestito dai nuovi mostri criminali – si fa presto a dire Russi, allora diciamo Ceceni – soldi sporchi transeunti, cognomi italiani, cognomi polacchi, ispettori messicani, la Madonna la religione le chiese. Soldi che spariscono, derelitti della porta accanto che girano intorno a morti raccontate e a vite rifatte. Il nucleo pulsante è un cagnolino, come nel coevo John Wick che però è becero consapevole. Qui il cucciolo maltrattato poi adottato è un incrocio verso cui convergono le strade di tutti questi cani sciolti, ma le relazioni sono gravate da colpe e storie passate riaffioranti, le parentele ingombrano e scatenano reazioni incontrollate.
Tom Hardy, lui, il Grande, l’Attore, gioca a fare il piccolo Edward Norton e da contratto interpreta per sottrazione, ma dovrebbe smetterla una volta per sempre, basta con la dicotomia tra Bronson e Locke, possiede tutte le corde di questo mondo e occorre fare in modo che sia libero di suonarle. Noomi Rapace è indegnamente svilita, il ruolo dell’emaciata pupa del pazzoide le sta addosso come un sacchetto di cellophane sul viso, parimenti soffocante. Gandolfini fa quel che sa, sembra Palminteri in una cartolina da Little Italy, poi gli altri comprimari hanno due dimensioni e non riescono a riempire un fotogramma che sia uno. Il racconto di Lehane vorrebbe essere edificante alla maniera di Lehane, ma muore di luoghi comuni e di frasi fatte, l’immanenza e la necessità del male naufragano nella palude del non significante.
Che poi ci hanno pensato i titolisti italiani, con Chi è senza colpa, a cercare la pregnanza evangelica, cancellando il titolo originale e con esso l’unico vero interesse del film, The Drop come bar e non luogo mutevole dove il denaro sporco passa di mano in mano, a Brooklyn. Una curiosità questa, null’altro, mentre lo spirito di Brooklyn ancora una volta è volato altrove, impalpabile come bruma.