Dunkirk
Padrone di un cinema architettonico ossessionano dal tempo, Nolan riesce a piegare il suo sguardo ingegneristico a favore di una rappresentazione esistenziale e astratta del conflitto bellico.
Terra, mare, aria; una settimana, un giorno, un’ora. Bastano pochi fotogrammi per ritrovare espressi in Dunkirk i principi che da sempre regolano il cinema di Christopher Nolan. Del resto il regista inglese non ha mai nascosto gli ingranaggi che soggiacciono alla costruzione dei suoi mondi filmici, strutture geometriche fatte di regole e meccanismi, al di sopra dei quali uno sguardo panottico organizza azione e personaggi.
In questo senso Dunkirk è un’operazione apodittica, un film così trasparente e preciso nella sua concezione da porsi come exemplum forse definitivo di cosa possa e debba essere il cinema per Nolan: un principio geometrico di autorialità assoluta declinato ai massimi livelli dell’industria. Certo, in quest’apoteosi del controllo resta il fatto che un sistema così centrato lascia poco spazio allo spettatore, imbrigliato al film in un rapporto studiato al millimetro, fortemente eterodiretto. Nolan non sembra contemplare una partecipazione attiva e creativa per chi guarda, e quest’impressione si rafforza quando si arriva ad un film che del meccanismo (e del controllo) vuole farsi apoteosi, tempio, emanazione totale. Eppure. Eppure non tutto torna nelle etichette precostituite, non tutto torna se pretendiamo di ridurre il film ad una formula autoriale da applicare a priori. Scriviamo questo perché è proprio nella sua evidenza, nel peso titanico (verrebbe da dire teutonico) delle sue immagini che Dunkirk permette a Nolan di raggiungere un traguardo che ci sembra il suo più intimo e prezioso. Non tanto l’aver cristallizzato il proprio sguardo ingegneristico in una struttura che rasenta una perfezione concettuale e formale, ma l’esser riuscito a piegare una tale istanza di controllo ad una rappresentazione esistenziale, rasente l’astrattismo, del conflitto bellico, riportato sullo schermo e sullo spettatore con una forza invasiva e totale che ha davvero pochi uguali nella storia del genere.
Circondati da un nemico senza volto, intrappolati in un conflitto statico, i protagonisti di Nolan trovano il loro vero antagonista nel tempo, carceriere onnipotente e onnicomprensivo. Pur pretendendo un suo posto nella storia del cinema bellico, Dunkirk non rincorre mai lo spettacolo effettistico della guerra, si disinteressa all’orrore evidente della carne e del sangue. Nolan astrae, asciuga, rinchiude l’episodio storico nell’immobilismo teatrale di uomini accodati su una spiaggia ai quali oppone soltanto due vettori in movimento, che attraversano mare e cielo. Una riduzione minimale, all’interno della quale viene però eretta una formidabile trappola spettatoriale intessuta di immagini titaniche e musiche opprimenti, un meccanismo che innalza il tempo a cardine dell’azione cinematografica e lo congela nella sua ricorsività, per restituire così l’assedio, l’annullamento, la spersonalizzazione del conflitto. L’uso linguistico del tempo ci riporta ovviamente a Kubrick, al montaggio di Rapina a mano armata e alla sua ossessione per lo scorrere delle lancette, ma di quella cifra esistenziale Nolan ignora (volontariamente o meno) l’umanità disperata e soggiacente, i piccoli caratteri umani, la follia irriducibile allo schema. Privo della specificità dell’elemento umano, Dunkirk innalza piuttosto lo schema stesso a correlativo oggettivo del conflitto. Il reiterarsi dell’azione contro personaggi svuotati, inabili, per gran parte scevri di eroismo se non colti nella loro pura carica vitale, non ha nulla di autoreferenziale ma si trasforma piuttosto in un teatro dell’assurdo volto a porre lo spettatore nella stessa gabbia dei suoi protagonisti. Allora sì che Dunkirk appare come una magistrale macchina manipolatoria, una trappola audiovisiva a cui darsi e affidarsi, rinunciando anche a trovare un proprio spazio. Un cinema che diventa un luogo angusto da abitare, angosciante, privo di ossigeno e scelta. Ma così è l’inferno glaciale della guerra, capace di trasformare la costa francese in un pianeta alieno e inospitale.
Tornando alle etichette, spesso Nolan viene visto come un autore freddo e chirurgico, lontano dalla materia umana messa in scena. Di certo il regista inglese ci mette del suo a rinchiudersi in una simile progettualità di sguardo, Dunkirk come detto ne è esempio lampante. Tuttavia, per quanto si impegni a mostrarsi sufficiente in sé, questo è comunque un cinema che cerca delle sue aperture, una forma pur geometrica di fuga, forse anche a scapito di sé stesso. Interstellar lo afferma chiaramente: il rapporto tra testa e cuore, struttura ed emozione, non è risolto come gli schemi del suo regista vorrebbero farci credere.
Ecco, se Dunkirk è un film rivelatore, il più eloquente e perfetto nella sua istanza autoriale, lo è a ben vedere anche in questo senso, manifesto della necessità di contaminare lo schema declinandolo sempre verso un rilascio emotivo. Tutta la terza parte del film, con il congiungersi delle diverse linee temporali, ne è la dimostrazione più evidente. In una narrazione così serrata e studiata, un terzo atto esteso a film intero e fondato tutto sul montaggio parallelo, sull’ellissi, sulla manipolazione temporale, si giunge infine al ricompattarsi dell’unità filmica, e ciò avviene con l’arrivo delle navi di soccorso dalla Manica, la salvezza che è anche patria, casa. Solo allora, quando l’assedio mortale del nemico tedesco viene spezzato, il cinema torna a fluire liberamente. L’immagine finalmente ricomposta si fa passepartout per aprire il lucchetto che tiene chiusi film, personaggi e spettatori dentro il conflitto, dentro la macchina. Come una scatola magica Dunkirk arriva a schiudersi di fronte ai nostri occhi, la chiave di vetro del cinema gira nella serratura sotto forma di uno spitfire nel cielo e nel ricompattarsi dello spazio-tempo l’immagine infiamma tutto quanto era stato compresso e schiacciato fino ad allora. Da qui si apre la strada d’uscita dall’orrore della guerra.