The Rider - Il sogno di un cowboy
L'opera seconda di Chloé Zhao è uno struggente western capace di raccontare la malinconia del reale che vive oltre la narrazione del mito.
Non c'è genere più americano del western. Sembra una frase fatta, ma per quanto questo genere negli anni sia diventato un modo di raccontare il mondo declinabile geograficamente in tanti modi, la natura originaria risiede inevitabilmente negli Stati Uniti d'America, la cui cultura fondativa è legata inscindibilmente al rapporto tra le due nature del territorio, quella selvaggia e quella civilizzata. Non è possibile capire gli Stati Uniti se non si parte da questo livello di lettura, se non si parte da un popolo senza storia e senza un'identità costruita nei secoli, ma unito grazie all'occupazione di una terra un tempo considerata selvaggia e alla costruzione di una società capace di mescolare identità, tradizioni, provenienze, etnie e religioni.
Che fine ha fatto la frontiera oggi? Per molti è sparita perché anche gli spazi selvaggi sono molto più controllati rispetto a cento anni fa; per altri è semplicemente da ricercare in altri posti (in Australia, per esempio); per altri ancora ha assunto nuove forme, come quella dei confini come quello tra Messico e Stati Uniti, o quelli tra quartieri abitati da classi sociali profondamente differenti.
Nonostante abbia conosciuto alti e bassi, oscillazioni tra momenti di maggiore popolarità e altri di quasi insignificanza per l'opinione pubblica, il western continua ad essere così centrale nell'identità americana che cinema e televisione non smettono di riprenderlo, riscriverlo, rivisitarlo, che si tratti della versione fantascientifica proposta da Westworld o della riformulazione digitale del classicismo realizzata da Godless. Per quanto il concetto di frontiera sia completamente diverso da quello di centocinquanta anni fa, lo spazio americano è ancora qualcosa di una grandezza inafferrabile, per certi versi incomprensibile agli occhi di chi non lo ha mai vissuto ed esplorato, tanto da essere ancora oggi un elemento fondamentale non solo delle rappresentazioni audiovisive, ma prima di tutto della costruzione di comunità. È da qui che parte The Rider, film di Chloé Zhao presentato nel 2017 a Cannes, uscito in sempre più sale negli Stati Uniti a seguito dei tanti premi vinti e arrivato qui in Italia solo nel 2019, a cavallo tra l'estate e l'autunno. Si tratta del secondo lungometraggio dell'autrice cinese, dopo l'ottimo esordio intitolato Songs My Brother Taught Me.
Proprio durante le riprese del suo primo film, Zhao conosce Brady Jandreau, con il quale sviluppa un rapporto sempre più stretto e dal quale rimane profondamente affascinata. Potrebbe sembrare un appunto superfluo all'analisi del film, ma a ben vedere non lo è affatto, perché lo stile di Zhao, il modo in cui il film è scritto e girato, le atmosfere che costruisce e in generale l'approccio alla materia narrata da parte della regista riflettono in maniera evidente il rapporto tra l'autrice e il suo protagonista.
La storia è quella di un mandriano campione di rodeo che rimane vittima di un incidente che gli lascia traumi e ferite molto profonde, oltre alla consapevolezza di non poter più partecipare a un rodeo. Tutto il film racconta ciò che succede dopo l'incidente, la vita del protagonista, quella della sua famiglia e il dramma di una persona che aveva poco e si ritrova senza più nulla. O quasi.
La storia quindi è quella vera di Brady Jandreau e tutti gli interpreti non solo sono non professionisti ma recitano nella parte di loro stessi conferendo una sensazione di verità impressionante alle immagini di Zhao, grazie anche alla capacità dell'autrice di dirigerli, considerando anche che non si tratta di un documentario ma di un film di finzione a tutti gli effetti.
Il lavoro di Zhao è un western in piena regola, in particolare per come la regista utilizza lo spazio, mostrando un paesaggio sterminato e selvaggio, una natura assolutamente indifferente rispetto all'essere umano, che è per quest'ultimo una componente essenziale della sua esistenza ma che di lui si disinteressa totalmente, sottolineando puntualmente la sua irrilevanza.
Lo sguardo di Zhao è ricchissimo di cose da raccontare, soprattutto perché guarda all'America in maniera molto diversa dalla tipica prospettiva statunitense, un punto di vista completamente immune alla retorica del sogno americano in cui a ogni caduta deve corrispondere una rinascita, in cui i protagonisti sono spesso antieroi maledetti e affascinanti e figure che vivono nella consapevolezza che impegnandosi al massimo, mettendocela tutta, non c'è sogno che non può essere raggiunto.
L'autrice è una donna cinese formatasi negli Stati Uniti e pertanto racconta la sua storia dal punto di vista di un'immigrata che guarda all'America in maniera molto diversa rispetto ai narratori statunitensi, restituendo un nichilismo e una disperazione che non conoscono alcun'indulgenza, alcun magnetismo e al contempo non sono mai trattati enfatizzando i sentimenti e il dolore dei personaggi. L'esemplificazione di questo discorso emerge nel paragone tra il film di Zhao e Il temerario di Nicholas Ray. Con il film del 1952, interpretato da uno straordinario Robert Mitchum, The Rider ha in comune il contesto e il protagonista, ovvero un campione di rodeo, ma vi si discosta profondamente perché privo dell'aura di tragedia che ammanta il protagonista del film di Ray di un fascino che appartiene solo ai fenomeni (e ai divi come Mitchum). La strada scelta dall'autrice è invece quella di un realismo che fa della malinconia del contesto messo in scena la sua cifra principale, grazie anche a uno stile che alla messa in scena della leggenda preferisce quella intensa e lancinante della vita, con tutti i suoi misteri e le sue sofferenze.
The Rider è uno struggente western contemporaneo diretto da una regista classe 1982 che a partire dalla tragedia di un uomo si allarga al ritratto della sua comunità e del suo mondo; un soggetto che l'autrice descrive con grande trasporto, tirando fuori un'autenticità davvero impressionate dai personaggi e dagli spazi messi in scena. Analogamente a quanto fatto da Kelly Reichardt in alcuni suoi film, Chloé Zhao fa il punto sul western americano privandolo totalmente del mito, riuscendo a utilizzare il genere per raccontare una faccia desolante e desolata dell'America contemporanea, un mondo fatto di relitti umani – che sotto certi aspetti ricorda The Wrestler (ma con un finale antitetico e molto più coraggioso) – ma anche di seconde possibilità in cui riscoprire l'amore per la propria terra, la propria famiglia e i propri amici.