Nomadland
Chloé Zhao pone l’obiettivo della macchina da presa esattamente all’incrocio tra mito e realtà, e mette in scena il cortocircuito che si genera a partire da questo incontro/scontro.
Nata a Pechino e formatasi negli USA, la regista Chloé Zhao ha realizzato finora tre lungometraggi estremamente coerenti come prospettiva di sguardo e campo di indagine, che vogliono offrire il ritratto di un’America autenticamente rurale e al contempo marginale e dolente. È qui che da un lato si sedimenta ciò che resta del mito del West e della frontiera - dal confronto spietato e serrato uomo/natura al senso di solitudine come elemento intrinseco e costitutivo dell’(anti)eroe – e dall’altro si infrangono le illusioni e i sogni di grandiosità e successo radicati in un certo immaginario, e tuttavia minati alla base proprio da quel sistema socioeconomico che ha voluto porli in essere.
La Zhao, forte di un sentire che in virtù delle sue origini è insieme dentro e fuori la materia trattata, pone l’obiettivo della macchina da presa esattamente all’incrocio tra mito e realtà, e mette in scena il cortocircuito che si genera a partire da questo incontro/scontro.
L’opera prima della regista, Songs My Brother Taught Me (2015), è un racconto intimo e delicato su due giovani fratelli della riserva indiana di Pine Ridge, nel South Dakota. Se i movimenti di macchina e lo sguardo sul paesaggio hanno un debito con il cinema di Malick, l’intento ultimo del film è quello di restituire un ritratto veritiero dei personaggi e della loro difficile quotidianità, senza però sfaldare troppo la narrazione, ma portando avanti un discorso coeso e limpido sul rapporto uomo/natura, dove però la natura è essenzialmente casa, patria, heimat. Uno dei personaggi secondari di questo primo film, attore non professionista e cowboy da rodeo, diverrà poi protagonista del secondo, intitolato The Rider - Il sogno di un cowboy (2019). A suo modo un western, il secondo film della Zhao, come avviene anche nel cinema di Roberto Minervini - che per geografie e sentire non è distante, sebbene più ruvido e meno addomesticato – è, più che racconto, vita vissuta, perché il protagonista Brady Jandreau interpreta se stesso.
Una presenza attoriale forte come quella di Frances McDormand in Nomadland è dunque una cesura, uno strappo in un certo senso, ma tuttavia non così profondo, perché la dimensione qui esplorata – umana ed emotiva, ma anche geografica e paesaggistica – resta in linea con i due film precedenti. Il punto di partenza è l’omonimo libro inchiesta della giornalista Jessica Bruder, che racconta del moderno nomadismo a cui tanti americani non più giovani sono costretti in seguito alla recente, rovinosa recessione economica. La protagonista del film, Fern, è una di loro: ha perso il marito e in seguito la fabbrica dove lui lavorava ha chiuso; gli alloggi per i lavoratori si sono trasformati in una città fantasma e lei, che non ha più una casa, gira l’America in un van in cerca di lavori stagionali. La durezza delle sue giornate è mitigata dalla solidarietà che riceve – e soprattutto offre – ai molti che condividono la sua stessa scelta di vita, incrociati, persi e ritrovati lungo un cammino senza fine, attraverso distese di neve e deserti, parcheggi notturni e fast-food.
Leone d’Oro a Venezia 77, due Golden Globe e tre premi Oscar, Nomadland sa coniugare le esigenze del cinema di fiction con quelle di un approccio che punta al documentarismo, parlare il linguaggio dell’emotività senza perdere aderenza al vero, insistere sulla drammaticità evitando il compiacimento, complice la presenza magnetica di Francis McDormand, intensa nella sua empatica asciuttezza.
Nomadland è infatti un film che sembra cucito addosso all’attrice protagonista, un film che si nutre della sua eccezionale interpretazione, ma anche un racconto intriso di malinconia e tenerezza, capace di rivelare tutto uno stato di cose a partire dai più piccoli dettagli. Un piatto che si rompe, una gomma a terra, lo sporco onnipresente che le mani stanche di Fern cercano di lavare via sempre e comunque. C’è poi l’America dei non luoghi: ancora tavole calde, campeggi, gruppi sparuti di case abbarbicate addosso a immense strade anonime, dove, come in certi dipinti di Edward Hopper o come in un autentico western, la vastità silente dello spazio basta da sola a minacciare l’uomo (che qui è sempre, e ancora, un pioniere) e il suo sogno di urbanizzazione, il suo bisogno di controllo, di ridurre l’ignoto a noto.
C’è poi, ancora, la natura maestosa e matrigna, specchio – come vuole, di nuovo, il western – della solitudine umana, margine di confronto della sua forza, della sua capacità di resistenza.
Nomadland è però anche un film che tiene in piedi solidamente un discorso politico prima ancora che esistenziale, sebbene l’afflato poetico resti alla base dell’approccio espressivo della regista.
Impossibile, per gli argomenti trattati, non pensare al bel documentario di Gianfranco Rosi Below Sea Level – Sotto il livello del mare (2008), girato in una comunità di homeless del deserto californiano: uomini e donne dalle vite spezzate, il presente che spaventa come una voragine aperta, il futuro che è qualcosa di impossibile, ormai, anche solo da immaginare. Ma la Zhao, sebbene fortemente ancorata al reale, vuole restare dentro il cinema, inteso anche come fabulazione: la necessità di costruzione del racconto si fa allora evoluzione del personaggio, che man mano sarà in grado di liberarsi dalle catene interiori del ricordo e di riprendere la strada, infine, con una libertà non solo fisica ma finalmente anche emotiva.