Oro verde - C'era una volta in Colombia
Ciro Guerra e Cristina Gallego rappresentano il dramma di un popolo talmente incapace di elaborare le traumatiche trasformazioni operate dal business del narcotraffico da avvilupparsi in un rapporto soverchiante e alienato con i propri miti.
Deserto di Guajira, Nord Colombia. Fine anni Sessanta. I discendenti dei nativi Wayuu vivono ancora in comunità ancorate a una dimensione ancestrale, in cui l’economia è basata sul baratto, si praticano riti propiziatori per scacciare i fantasmi e la famiglia viene prima di ogni altra cosa. Tra questi il giovane Rapayet vorrebbe sposare la bella Zaida e per acquistare la dote richiesta inizia a commerciare marijuana. In pochi anni, diventa un ricco narcotrafficante le cui scelte scatenano un bagno di sangue tra famiglie rivali. A sintetizzarla in questo modo la trama di Oro verde - C’era una volta in Colombia sembra ridursi alla rappresentazione di una società arcaica le cui tradizioni vengono spazzate via dall’avvento della macchina capitalista. Ma il film che inaugura il sodalizio alla regia tra Ciro Guerra e la sua produttrice Cristina Gallego fa di più e ribalta la prospettiva, indirizzando piuttosto lo sguardo sul dramma di un popolo talmente incapace di elaborare le traumatiche trasformazioni operate dal business del narcotraffico, da avvilupparsi in un rapporto soverchiante e alienato con i propri miti.
I registi colombiani declinano il gangster movie secondo un approccio antropologico, ma lo calano in una dimensione spirituale e a tratti allucinata, vero fulcro dell’operazione. Se infatti titolo e sottotitolo italiani sottolineano furbescamente la componente crime - con ovvia strizzata d’occhio a Narcos e affini -, il titolo originale (Pájaros de verano) e quello internazionale (Birds of Passage) pongono invece l’accento sugli aspetti irrazionali e folkloristici. I Pájaros de verano sono infatti uccelli di sventura, presagi tra i tanti che scandiscono la storia di Rapayet e della sua famiglia, fino alla sciagura finale. Tutto il film è così pervaso da un’atmosfera mortuaria e fatalista, che Gallego e Guerra - molto più abile però nel precedente e bellissimo El abrazo de la serpiente a coniugare antropologia e visionarietà - infarciscono con sequenze oniriche di magrittiana ispirazione e un commento sonoro di ineluttabile tragicità. Tutto per arrivare al paradosso del film, mano a mano che il sistema di codici e tradizioni, che prima garantiva la resistenza identitaria di un popolo all’avanzare della modernità, si trasforma al contrario in un caos abbacinante di simbolismi e superstizioni che allentano il legame con la realtà, fino a renderne impossibile la corretta interpretazione.
Personaggio cardine di Oro verde è in tal senso l’anziana Ursula, la saggia vaticinatrice che riesce sì ad avvertire il pericolo proveniente dall’esterno ma finisce con attribuire il declino della famiglia all’infrazione di patti inviolabili e forze oscure, piuttosto che alla corruzione operata da un illusorio e repentino benessere. Sono questi gli anni della bonanza marimbera, il fenomeno che, dalla metà degli anni Settanta, trasformò la Colombia in uno dei massimi Paesi esportatori di marijuana, con conseguenze destinate a riflettersi sull’economia mondiale. Anni in cui gli asini cominciano a essere sostituiti da macchine costose e vendere droga diventa del tutto normale per intere comunità, all’interno delle quali sopravvivono al contempo leggi secolari non scritte da osservare con il più rigoroso e timorato rispetto. Gli anni in cui un antico microcosmo si appresta ad essere svuotato dal suo interno, per essere infine riplasmato e venduto dal mercato globale. Un collasso che è anche quello dell’immaginario, qui indicato dall’azione esercitata sul genere cinematografico: dai brevi squarci semi-documentaristici alla deriva action (tipicamente americana) del finale.
Oro verde mette in scena la storia di un suicidio culturale e morale inevitabile, senza preoccuparsi di approfondire le cause ma concentrandosi piuttosto sulle conseguenze. Lo fa non certo senza limiti, tra cui il rischio di risultare ripetitivo e spesso privo di quella forza visionaria che, qua e là, resta soltanto evocata, non del tutto capace di incidere fino in fondo sull’esperienza spettatoriale. Purtroppo non siamo ai livelli di quel viaggio terribile ed epico attraverso il cuore di tenebra che era El abrazo de la serpiente, in cui la follia prodotta dall’ingerenza occidentale sulle culture aborigene dell’Amazzonia era supportata da una maggiore potenza narrativa ed espressiva, oltre che da una più ricca varietà di temi. Siamo comunque di fronte a un’opera di un certo interesse, capace, almeno nei suoi propositi, di scansare le vie più scontate.