Diabolik
Un'operazione anacronisticamente e orgogliosamente analogica nel bel mezzo dell'era digitale, imperfetta ma totalmente consapevole nel suo rifiuto ostinato delle regole del blockbuster contemporaneo.
La sirena di un allarme rompe il silenzio della notte di Clerville, dando il via all’inseguimento della celebre Jaguar nera di Diabolik da parte della pattuglie guidate dall’ispettore Ginko: la sequenza iniziale è anche l’unico momento veramente action di un film che, una volta introdotto il contesto, si rivela una rilettura filologicamente corretta delle due anime che contraddistinguono le avventure del Re del terrore, creato nel 1962 dalle sorelle Angela e Luciana Giussani. La prima, quella più nera, crudele e scorretta, tipica dei primi anni di pubblicazione del fumetto, quando Diabolik era ancora un assassino spietato, privo di compassione e protagonista di intrecci noir vicini alla tradizione francese, e quella successiva, incentrata prevalentemente sulle dinamiche – sempre più elaborate e al passo coi tempi – dei suoi famigerati furti. Tutta la prima parte del film è infatti l’adattamento sostanzialmente fedele di una delle storie più celebri, L’arresto di Diabolik (numero tre della prima serie, marzo 1963), e del suo omonimo rifacimento pubblicato nel 2012 nella collana parallela Il grande Diabolik: un breve arco narrativo che, raccontando l’incontro e l’innamoramento con Eva Kant, rappresenta di fatto uno dei pochissimi elementi di continuity del fumetto, come nella migliore tradizione popolare italiana (basti pensare anche ai personaggi storici della Bonelli, da Tex a Zagor, quasi sempre estranei a saghe in grado di stravolgerne lo status quo). E chissà se i due sequel, attualmente già in fase di lavorazione, affronteranno l’altro grande elemento ricorrente nella storia del personaggio, ovvero le sue origini legate all’isola di King…
Chi si aspettava dai Manetti, anche sceneggiatori insieme ai fumettisti Mario Gomboli (che compare nel ruolo del giudice) e Michelangelo La Neve, il difficile e improbabile punto di incontro tra la dimensione pop di un fenomeno di costume che dura ormai da sessant’anni e l’esigenza, più strettamente contemporanea, di venire incontro ai gusti di un pubblico abituato ormai a ben altro, probabilmente rimarrà deluso da un film fuori dal tempo e lontano dalle mode. Evitando con intelligenza qualsiasi riferimento all’esperimento compiuto da Mario Bava nel 1968, Diabolik ricrea minuziosamente l’universo delle sorelle Giussani attraverso dettagli riconoscibili soltanto ai lettori più attenti: quindi non solamente le città Clerville e Ghenf e i nomi delle vie e dei personaggi (compresi quelli di contorno), com’era più scontato, ma anche la postura dei protagonisti (quella di Diabolik che legge il giornale seduto in poltrona, o quella di Ginko durante il confronto finale) e la composizione stessa dell’inquadratura, mai così vicina al celebre layout a due vignette tipico del formato tascabile. Questa attenzione maniacale è però anche il limite maggiore - almeno in termini commerciali - di un film che di fatto sceglie di rivolgersi quasi esclusivamente ai conoscitori della materia, presentandosi come un’incognita nei confronti di tutti gli altri. Una scelta forse discutibile, ma pur sempre una scelta. Anzi, di più: una presa di posizione netta e cristallina.
Ecco allora che, nel pieno dell’era digitale, Diabolik si rivela un film anacronisticamente e orgogliosamente analogico, quasi testardo nel desiderare che lo spettatore si meravigli ancora di fronte alla magia di un artificio d’altri tempi: come l’apertura di una parete rocciosa che rivela un ingresso nascosto, oppure il celebre stratagemma delle maschere di lattice, trucchi vecchi come il mondo ma oggi ancora indispensabili più che mai. L’ambientazione negli anni Sessanta e lo stile volutamente retrò non devono trarre in inganno, perchè quella dei Manetti non è un’operazione nostalgica, e nemmeno postmoderna, tutte cose alle quali oggi siamo fin troppo assuefatti; non è la rappresentazione di un mondo che non esiste più ma, al contrario, di un mondo che non è mai stato e mai sarà. È il ritorno a una dimensione che è esistita (ed esiste ancora) solamente nel regno della fantasia, nell’immaginario condiviso, chiedendo allo spettatore di abbandonarsi dentro essa per il tempo di una durata, 133 minuti, che allora, forse, tanto eccessiva non è, nonostante il luogo comune imponga il contrario.
E in mezzo a tanti cinecomics sempre più drammaticamente seriosi e lontani da quella profondissima leggerezza della dimensione cartacea, il Diabolik dei Manetti Bros è un’operazione coraggiosa e in controtendenza, probabilmente imperfetta (chi la vuole, in fin dei conti, la perfezione?) ma totalmente consapevole nel suo rifiuto ostinato delle regole, dei tempi, del montaggio, dei dialoghi e della recitazione imposti dai canoni del blockbuster contemporaneo. Ecco perché sarà amato pochissimo. Ma chi se ne importa?