Immaginate di essere un critico cinematografico degli anni ‘40 che improvvisamente si ritrova di fronte ad un opera monumentale, diciamo Quarto potere. Vi ritrovate incantati dal primo all’ultimo minuto pur ravvisando disappunto nella maggior parte del pubblico attorno a voi. Ma non v’importa, vi state in qualche modo rendendo conto di assistere a qualcosa di speciale, misterioso, destinato a lasciare il segno in un modo o nell’altro. Il vero dilemma non è tanto che vi sentiate un alieno in mezzo ad una moltitudine di detrattori; il problema è che dovete scriverne di li a un giorno senza essere riusciti ad assimilare che una piccola parte della complessità dell’opera in questione, incapaci di metabolizzare un prodotto tanto denso, difficile quanto appagante. Accantonati gli ovvi e noiosi distinguo tra il capolavoro di Orson Welles e l’opera di cui ora si andrà a parlare, questa è stata più o meno l’imbarazzante sensazione provata da chi scrive al termine di Cloud Atlas.
La nuova fatica dei fratelli Wachowski (con l’aggiunta del terzo regista Tom Tykwer), reduci un po’ malconci dall’immeritato flop del lisergico Speed Racer, è qualcosa di cui si fatica a scrivere in modo ordinato e puntuale dopo poche ore di riflessione e, soprattutto, dopo una singola visione. Per prendere tempo cominceremo con una nota di sana polemica. Il film è uscito negli Stati Uniti già da qualche tempo; bollato presto come flop è stato in compenso piratato in mezzo mondo, benché sia una di quelle opere che necessita – proprio in quanto cinema puro – di essere fruito almeno una volta in sala. Sono quindi comparse recensioni in cui, spesso, si parla del film come di qualcosa di “già visto”, formula di per sé già abbastanza odiosa ed abusata che viene solitamente utilizzata in automatico quando determinati gangli del riconoscimento vengono attivati. Senza dubbio Cloud Atlas si alimenta, in parte, di frammenti, lampi e particelle iconiche sottratte ad immaginari preesistenti (quando non esplicitamente partoriti dallo stesso cinema dei Wachowski), ma la caratteristica che lo differenzia dalla maggior parte dei prodotti coevi che vivono di rielaborazione di materiali consiste nella capacità di metabolizzazione e ridistribuzione degli stessi.
Partiamo dal fatto che Cloud Atlas non è un film ma sei. Sei parabole narrative frammentate ed intrecciate tra loro che vanno a (s)comporre un mosaico di suoni ed immagini messo a disposizione di una miriade di speculazioni interpretative. In Cloud Atlas, tratto dall’omonimo romanzo di David Mitchell, (non) seguiamo sei storie ambientate in altrettanti secoli diversi: dalle grandi esplorazioni dell’ottocento ai fascismi tra le due guerre mondiali, dall’edonismo reaganiano al liberismo della Tatcher, dalla guerra civile americana ai nuovi schiavi di un mondo distopico, da motel fatiscenti in cui si compongono sinfonie leggendarie a città alla Philip Dick dove viene messo in scena il futuro anteriore del giorno successivo all’Apocalisse. Il film dei Wachowski & Tom Tykwer è molto lontano dall’essere “già visto”: è al contrario un testo aperto, sfaccettato e cangiante, impossibile da riassumere e riuscito proprio perché in grado di essere osservato da diverse angolazioni in seguito ad ogni nuova visione. E’ un’opera che rischia però di essere schiacciata dal peso delle sue stesse ambizioni, e che probabilmente pagherà con una delusione al botteghino il suo non voler scendere a compromessi (è quello che sarebbe accaduto a The Tree of Life se non avesse goduto dell’hype guadagnato dalla vittoria a Cannes, e che avrebbe fatto fallire opere concettualmente e stilisticamente evolute come Avatar o Vita di Pi se non avessero scelto di miscelare l’avanguardia e la sperimentazione ad una forte dose di spettacolarità).
Cloud Atlas è un film che di certo ha a che fare con il postmoderno cinematografico ma, attenzione, non nell’accezione del termine erroneamente intesa dalla vulgata (i film citazionisti o i pastiche hanno poco o nulla a che vedere con la postmodernità cinematografica, come si può apprendere ripercorrendo il percorso del fenomeno nelle altre arti nel volume Il postmoderno di G. Chiurazzi o leggendo Il cinema postmoderno di L. Jullier). Si riconnette infatti ad una corrente cinematografica postmoderna proprio in virtù della sua natura contemporaneamente narrativa e a-narrativa. A questo proposito, nell’eccellente lavoro Modular Narratives in Contemporary Cinema (purtroppo ancora inedito in Italia), lo studioso Allan Cameron attribuisce ad una serie di film degli anni ’90 (ad esempio Memento, Lola corre e Pulp Fiction) la peculiarità di utilizzare in modo programmatico una struttura narrativa modulare atta a dialogare interattivamente con lo spettatore, facendo della distorsione percettiva e temporale, dei giochi di memoria, dell’associazione, del déjà vu e dell’enigma il centro tonale dell’opera. Moduli, per l’appunto, scomponibili e ricomponibili secondo diverse modalità: didascaliche (Memento), disorientanti, surrealiste, eccetera. Ancora una volta, quindi, non è tanto ciò che si racconta il nesso ma il “come”. In Cloud Atlas, come in buona parte del cinema dei Wachowski, pensiero e tecnologia sono un tutt’uno simbiotico, l’uno si alimenta dell’altra e viceversa, in una miracolosa concezione artigianale dove téchne e alta filosofia vivono uno dei matrimoni più felici degli ultimi anni.
In quest’opera fiume dove la Storia e la storia del Cinema si rincorrono senza soluzione di continuità ci troviamo sommersi da stimoli di ogni tipo che a volte giungono talmente gravidi di senso ed in tale quantità all’occhio e alla mente che di tanto in tanto si rischia l’ebbrezza o la vertigine. Ma non era forse la ricerca del brivido, del salto verso l’ignoto, dell’evasione, dell’esplorazione di se stessi attraverso la visita di altri mondi il fine originario del Cinema? Se così fosse, a ricordarsene oggi sono davvero in pochi. Apprezzare veramente Cloud Atlas significa pertanto volersi emancipare da un cinema conciliante e “facile” senza per questo rinunciare al piacere di uno spettacolo puro, a cui abbandonarsi ma che al termine della visione lasci insoluta tutta una serie di dubbi senza che vengano offerte chiavi di lettura obbligate (come invece accade in un’opera a circuito chiuso come Inception). La bellezza di Cloud Atlas consiste, tra le altre cose, nel suo essere più esperienza che film, qualcosa che arriverà alle persone in maniera anche diametralmente diversa, portando al pieno accoglimento o al rifiuto totale con tutto ciò che passa in mezzo.
Vicino per molti versi alle opere di due dei più geniali e psichedelici autori di fumetti inglesi, Alan Moore e Grant Morrison, Cloud Atlas è un’esperienza genuinamente postmoderna perché, come ricorda Jullier, pone lo spettatore al centro dell’opera, stimolandolo costantemente – con l’upgrade tecnologico a sua volta esibito e messo in scena – nel corpo e nella mente; ma anche postclassica poiché richiama un universo fatto di emozioni e sentimenti forti, di storie ancestrali e sensazioni universali. Sogno di ogni avveduto ermeneuta con il cuore al posto giusto, Cloud Atlas è il film perfetto per chi volesse scrivere un corposo volume monografico e potrebbe, al contempo, diventare benissimo la scintilla della discordia in un qualsiasi forum dove schiere di cinefili passerebbero giornate ad addurre motivazioni per giustificare questa o quell’altra tesi arzigogolata. A chi scrive sinceramente non interessa né di un ipotetico nesso che faccia tornare i conti né tantomeno di un senso che riordini la cosmogonia dell’opera. La meraviglia di Cloud Atlas sta proprio nella sua refrattarietà alla vivisezione, all’analisi raggelante figlia del pensiero scientifico applicato all’arte. Non a caso a fare da filo conduttore per tutta l’opera sono la musica e l’amore, due cose che generalmente per provare a spiegarle si fa un grande sforzo, spesso inutile. Film sull’amore, sulla musica, sulla rivoluzione, sul sesso, sulla libertà, sull’identità nelle sue molteplici declinazioni (il dato biografico del cambio di sesso di Larry Wachowski, ora Lana, riveste sicuramente un ruolo importante nella messa in scena) e sull’emozione di raccontare e di ascoltare una storia, Cloud Atlas forse non verrà accolto felicemente come Matrix ma è molto probabile che, come una medicina omeopatica, agirà a lento rilascio, producendo il suo effetto benefico nel tempo laddove si avrà la pazienza e l’intelligenza di lasciarlo sedimentare.
Doveroso, avviandoci alla conclusione, menzionare l’incredibile lavoro svolto da ogni singolo comparto tecnico (dalla d.o.p. ai costumi, dalla scenografia al montaggio) e in particolar modo quello svolto dagli e sugli attori (un cast enorme al suo massimo storico), calati in interpretazioni inscindibilmente funzionali alla totalità dell’operazione e rese ancor più speciali dalle magie di un make-up da Oscar. La compenetrazione e l’interazione tra mente e corpo, il risveglio della coscienza e l’invito a combattere sono quindi ancora i perni teorici di due cineasti (qui tre, ma la poetica è tutta wachowskiana) coerenti, visionari e utopisti. Votati al martirio commerciale in nome di un cinema puro, sperimentale ma gravido di tradizione – con lo sguardo verso l’orizzonte, un piede nel presente e con la coda dell’occhio guardando al passato – i Wachowski realizzano un capolavoro contemporaneo e fuori dal tempo, in cui il passato sembra già domani e viceversa, come il futuro in cui si ambienta Star Wars, che si dispiega davanti ai nostri occhi preceduto da una celebre frase: tanto tempo fa…