In questo mese, una parte degli sforzi di Point Blank, è stata protesa a dare visibilità a una particolare realtà documentaristica che spesso non ha goduto, in termini di visibilità, di forti eco, seguendo invece quella sorte che, al giorno d’oggi, è assai diffusa nel panorama cinematografico italiano indipendente; ovvero l’invisibilità, e il conseguente e cosiddetto cinema invisibile. Parliamo in questo caso del percorso documentaristico del regista Ivano De Matteo, al quale la nostra rivista ha deciso di dedicare maggiore spazio grazie a una monografia della sua opera meno conosciuta al grande pubblico, per l’appunto quella documentaristica. Uno sforzo dunque, che prosegue anche in questa settimana, nella quale ci occupiamo di commentare l’opera dal titolo Codice a sbarre, girata a Roma ben otto anni or sono e vincitrice, nel 2006, del Festival Sedicicorto, nella sezione d/o/c/.
Come potrebbe essere intuibile già a partire dal titolo, questo documentario si occupa di una delle tematiche forse tra le più gettonate della cinematografia documentaria tout-court, e cioè quella della vita dietro le sbarre, del carcere. Tuttavia l’approccio di De Matteo a questo tema è, in un certo qual modo, fuori dalle righe, poiché ciò che è quasi del tutto assente è proprio la presenza fisica, volumetrica, del carcere; inteso letteralmente come struttura, come organismo architettonico. Codice a Sbarre infatti, è un progetto che nasce essenzialmente non tanto dalla ripresa della vita nel carcere, ma bensì dalla sua rappresentazione, la sua messa in scena.
Il 5 Giugno del 2004 infatti, in una delle più conosciute Piazze della capitale italiana (Piazza Trilussa), viene eretta un’installazione realizzata in plexiglas, che mette in scena e riproduce esattamente, fin nei minimi dettagli, la cella di un carcere di Regina Coeli, con tanto di ex-detenuti e personale di sicurezza. L’obiettivo è quello di riprodurre in diretta la vita di un detenuto all’interno del carcere in una giornata qualsiasi, cercando così, in maniera se vogliamo, sottilmente voyeuristica, di rendere consapevole il pubblico del contesto reale in cui i condannati sono costretti a vivere.
E così, da questo progetto, De Matteo ricava un girato di ventotto minuti, nei quali raccoglie le testimonianze del secondino e dei quattro ex-detenuti coinvolti nella performance, grazie alle quali vengono messi in luce quei temi nei quali inevitabilmente ci si imbatte affrontando tematiche di questa tipologia. Ma sono tuttavia le memorie e le esperienze passate dei singoli, piuttosto che le immagini, a descriverci queste tematiche, queste sensazioni che si provano dietro le sbarre: il senso di impotenza, la paura, il paradosso della violenza, della sottomissione, dell’attesa, del rimorso perenne e del terrore per il futuro, che mai danno tregua, e che spesso continuano, infaticabili, a perseguitare il detenuto anche dopo che questi ha riottenuto la libertà scontando la pena.
Un’indagine dunque, quella di De Matteo, volta a recuperare, grazie alla memoria, quelle testimonianze capaci di ricostruire un’immagine, uno scenario, atto a ricordarci ancora una volta quanto possa essere traumatizzante e feroce l’esperienza del carcere; un’esperienza che, volente o nolente, cambia l’individuo nella sua interezza, e ne sconvolge, di conseguenza, certezze, ideali e prospettive, marchiandolo per l’eternità.