Torino 2020 / Lucky + Regret
Presentati assieme ne Le stanze di Rol del TFF, i due film oscillano tra decostruzionismo dello slasher e gotico urbano.
Autrice di manuali di business volti all’auto-aiuto e moglie di un professore di filosofia, May Ryer vive la sua vita da scrittrice in una casa di lusso, secondo una routine che sembra davvero fortunata. Del resto “fortunata” è la parola che spesso usano i suoi interlocutori per descrivere la sua condizione. Come se non avesse lavorato, e tanto, per arrivare dove è; come se il suo matrimonio non fosse un delicato equilibrio di compromessi ma un’unione idilliaca e mai conflittuale; come se il raggiungimento di traguardi professionali e affettivi, in quanto donna, sia anzitutto una questione di fortuna. Secondo questa logica allora è solo per un avverso mutamento della sorte che la sua vita diventa un grottesco incubo di stampo kafkiano, la riproposizione, a volte farsesca ai limiti del ridicolo, del più trito slasher movie, per cui un uomo, mascherato e silente, irrompe ogni notte in casa tentando di ucciderla. Salvo farsi stordire, ferire, uccidere malamente da May per poi ricominciare da capo il giorno dopo. È solo sfortuna quella di May, intrappolata nel ruolo di final girl dentro un horror che ne determina scelte e sfide?
Terzo lungometraggio della regista iraniano-americana Natasha Kermani (Imitation girl, Shattered), Lucky è teoria applicata allo slasher, anzi è teoria dello slasher applicata al reale, perché con il ripetersi e l’esasperarsi di situazioni tipiche il film lavora dentro il genere per poi superarlo, guardando a un orizzonte che ha ben poco di metalinguistico e molto di quotidiano, pratico, tangibile. Questo perché il meccanismo in cui si trova intrappolata May è evidentemente allegorico e nasce per condurre lo spettatore nella condizione e nel punto di vista quotidiano della donna alle prese con le insinuazioni, i soprusi e i veri e propri abusi innescati dal sistema patriarcale. Semplificando ed etichettando (per quel che vale, poco), Lucky è quindi un film che ben si colloca sulla coda lunga del movimento #MeToo e delle più generali azioni di comunicazione, militanza, sensibilizzazione e denuncia nate negli ultimi anni, ma il film (scritto dalla sua protagonista, Brea Grant) ha l’intelligenza di muoversi su un livello astratto (e assieme concretissimo) in cui non occorrono riferimenti storici o coordinate spazio-temporali. Lontano dai meccanismi del rape & revenge, Lucky ricorda piuttosto il bellissimo L’uomo invisibile, che di fatto parlava di stalking e abuso psicologico attraverso le note del genere, ma rispetto a Whannell la Kermani e Grant ricostruiscono la condizione femminile sotto altre spoglie ricorrendo in modo pressoché totale alla decostruzione. Lucky smonta la casa dei giochi del cinema rinunciando a portare avanti contemporaneamente narrazione e metafora, e la seconda finisce per soppiantare la prima prendendone il posto. Il risultato è sicuramente un film capace di generare riconoscimento/spaesamento (in base all’identità con cui lo si guarda) – e quindi conforto attraverso l’emersione del familiare non detto, o difficoltà, sorpresa, consapevolezza dovute al mettersi nei panni estranei dell’altro sesso – ma in entrambi i casi l’esposizione rischia di sommergere la narrazione, il simbolico soppianta totalmente il fattuale, lasciando che il film si trasformi in un esercizio affermativo in cui tutto accade ai fini dell’intento metaforico.
Più sottile e allucinato, e fedele alle meccaniche di genere, è invece Regret, il corto di Santiago Menghini che accompagna Lucky in questa double bill offerta da Le stanze di Rol, la sezione di cinema di genere di questo Torino Film Festival. La storia riguarda Wayne, uomo d’affari di mezza età che alloggia in un lussuoso hotel di Montreal, e da lì contatta la sorella per dirle che non verrà al funerale del padre, appena scomparso. I motivi della decisione non vengono esplicitati, ma conta poco perché il film è un piccolo gioiello di horror espressionistico in cui tutto quel che c’è da percepire e comprendere della condizione psicologica di Wayne viene espresso dalle immagini, a partire dal nero pieno e bituminoso che avvolge stanze, corridoi e hall dell’hotel deserto. Ed è proprio nella gestione gotica dello spazio urbano, nel modo in cui viene messa in scena l’angoscia attraverso la dicotomia di luce/buio e il suffuso perdersi delle geometrie architettoniche, nel terrore puro suscitato da corpi oscuri e assassini in movimento, che il canadese Menghini si dimostra una giovane promessa dell’horror contemporaneo.