Colossale sentimento
Il Battesimo di Cristo di Francesco Mochi, colosso marmoreo realizzato nel '600, dopo quattrocento anni torna finalmente al luogo per il quale era stato concepito
Fabrizio Ferraro, che ha esordito alle regia nel 2008, si è sempre occupato di cinema in maniera trasversale, alternando film di fiction e documentari a riflessioni critiche (Breviario di estetica audiovisiva amatoriale - Natura, immagine, etica, pubblicato nel 2006) e all’organizzazione di incontri e rassegne (tra 2000 e 2001 ha diretto la Mostra Cinematografica Internazionale di Terzo Cinema). Con alle spalle un percorso autoriale tutto all’insegna della sperimentazione e della radicalità, in Colossale sentimento compie una meticolosa e millimetrica operazione di svuotamento e sottrazione del linguaggio cinematografico che, ridotto a puro sguardo, offre allo spettatore una sorta di mistica epifania che ha per oggetto il gruppo scultoreo del Battesimo di Cristo dell’artista toscano Francesco Mochi (1580 – 1654). Imponenti e maestose, le statue del Cristo e del Battista furono realizzate per la chiesa di San Giovanni Battista de’ Fiorentini a Roma tra gli anni ’30 e ’40 del ‘600, ma vennero rifiutate dalla committenza. Come ci informa la didascalia che apre il film, l’opera di Mochi iniziò allora a peregrinare di luogo in luogo per quattrocento anni: prima accolta a Palazzo Falconieri a Via Giulia fu poi collocata sulla Piazza di Ponte Milvio, e in seguito spostata presso Palazzo Braschi. Da qui, finalmente, nel 2016 tornerà al luogo per il quale era stata destinata, poiché “un gruppo di visionari decide che è tempo di riportarla a casa”.
Ferraro documenta essenzialmente i lavori di preparazione nella chiesa che viene predisposta per ospitare le grandi sculture e poi il lentissimo, delicatissimo spostamento dei colossi di marmo. Da un lato il cantiere degli operai con i rumori sordi e continui di un incessante affaccendarsi, dall’altro il silenzioso viaggio notturno delle statue che, chiuse in una immensa gabbia di legno, attraversano la città immobile. Con un bianco e nero denso e morbido il regista fa interagire luci e ombre, brandelli casuali di realtà e momenti di sospensione poetica in cui l’atmosfera è rarefatta come in un sogno. Il prima, il dopo e il perché non interessano affatto a Ferraro: quel poco che viene offerto allo spettatore, in questo senso, è tutto condensato nelle brevi frasi della didascalia in apertura.
Oggetto misterioso e luminescente, Colossale sentimento mette al bando anche il dialogo e la parola come portatori di significato esplicito; unica eccezione, la voce fuori campo che accompagna, per alcuni brevi momenti, il tragitto delle enormi statue. Dalle note di regia – e solo da queste – sappiamo che questa voce appartiene a Cristo, che rompe un silenzio durato quattrocento anni per rivolgersi al Battista; ma a un orecchio attento non sfugge che il Cristo di Ferraro, bianco baluginare di pietra nel nero della notte, prende in prestito le parole di Nietzsche in Così parlò Zarathustra - Il ritorno a casa; del resto, il suo è un viaggio a ritroso verso in luogo a cui appartiene. E’ chiaro, fin da subito, che il film non contempla le mezze misure e non vuole porsi di fronte a chi lo guarda come entità addomesticabile e intelligibile: parla una lingua propria che mette a dura prova la grammatica del cinema, e oppone a un presente di ipertrofia visiva e vorticose accelerazioni un ritmo parossisticamente dilatato e una fissità di sguardo volutamente, provocatoriamente esasperanti, portando avanti i propri diktat con perseveranza e ostinazione. Tuttavia, se è innegabile che la coerenza e l’audacia di Ferraro meritano un plauso, è pur vero che i rischi a cui si espone un’operazione di questo tipo, sebbene suggestiva e raffinata, non sono da poco, primo fra tutti quello di cristallizzarsi in un monologo autoreferenziale che lascia allo spettatore uno spazio di interazione troppo inconsistente ed esiguo.