Contagious - Epidemia mortale

Schwarzenegger si reinventa attore drammatico in un melodramma rurale mascherato da horror

Spesso e volentieri non basta una buona idea a fare di un film un buon film. Ne è un esempio lampante il curioso caso di Contagious - Epidemia mortale (meglio noto con il titolo originale Maggie) di Henry Hobson, anomala tragedia horror con la ex Little Miss Sunshine Abigail Breslin e, soprattutto, con un Arnold Schwarzenegger nell’inedito ruolo drammatico di un padre alle prese con il più tremendo dei dilemmi.

Sì, perché sebbene Maggie appaia, a prima vista, come la classica storia di contagio orrorifico, quello di una ragazza destinata a divenire zombie in un mondo in piena apocalisse, è sul registro del dramma puro, della piccola e intima storia famigliare che si gioca l’intera vicenda, con tutti gli stereotipi, gli scompensi e le contraddizioni del caso.

Certo, non è cosa facile colorare l’abusata, abusatissima invasione zombie di tinte inedite e originali, ribaltandone il tradizionale punto di vista e sconvolgendo le stesse logiche di genere. Ben vengano allora le suggestioni cupe e tuonanti di un Midwest oscuro e intimista, teatro di un Armageddon privato, di un dramma famigliare a colpi di ordinaria decomposizione che con buona tecnica, sensibilità e grazia Hobson porta sullo schermo.

Attraverso un tocco visivamente affascinante e consapevole, il regista statunitense, tra silenzi e tempi dilatati, crea una tragedia zombie di trattenuto orrore, di quotidiana disperazione, dove sprazzi di estrema contemplazione estetica (dal gusto quasi malickiano) si contrappongono all’imprescindibile rimando al più recente immaginario orrorifico e post-apocalittico, dall’immancabile sguardo a serie come The Walking Dead o a capisaldi videoludici come The Last of Us.

Ma – in questo disperato racconto di amore filiale che esaspera i toni fino al patetico e che, con non poco compiacimento, vorrebbe utilizzare lo spunto dell’horror stemperandolo, sdoganandolo per innalzarlo, infine, verso un dramma da camera nel cuore dell’America rurale – è proprio l’unità d’insieme, una struttura salda in grado di contenere e far convivere ogni sfumatura e contraddizione, ogni spunto innovativo e di valore, a mancare del tutto.

Edulcorando, fino quasi all’annullamento, qualsiasi forte e iconica suggestione orrorifica e distopica, Maggie rischia ben presto di cadere nella più classica opera pretenziosa e sentimentale sulla malattia, in un melodramma di lacrime (sì, anche Schwarzy può piangere) e tormenti a un passo dal ridicolo e dal grottesco involontario. É allora l’incapacità di trovare quell’equilibrio fondamentale tra la componente horror e quella drammatica, tra un esterno fantastico e un interno che quelle suggestioni soprannaturali vorrebbe annacquare in metafore fin troppo scontate, a sancire il fallimento sostanziale di un film come Maggie.

Anche la mutazione, tema cardine di certo grande horror, viene allora a perdersi, diluendosi nel non troppo brillante parallelismo con l’adolescenza, con lo stravolgimento delle dinamiche affettive che questa comporta, con la presa di coscienza di sé e dei propri sentimenti.

Concentrandosi troppo sul vecchio, granitico e monocorde Arnold e sulle sue dolorose scelte di genitore, il regista – complice un fin troppo superficiale lavoro di scrittura sui personaggi – finisce proprio col trascurare il cambiamento tanto fisico quanto esistenziale della Breslin (tanto da rendere, paradossalmente, più convincente il primo della seconda), perdendo così l’occasione di dare vita a un prodotto veramente sui generis, autenticamente differente e originale.

E allora, alla fine dei conti, non può esserci compiacimento, silenzio riflessivo o delicatezza antispettacolare che tenga: Maggie coinvolge, sì, intriga e tiene alta fin che può l’attenzione, ma non sarà il suo tocco delicato e la sua vocazione melodrammatica, che gioca con un genere per annullarlo, a liberare il suo pubblico da quella fastidiosa consapevolezza che sia stata solo la curiosità per un soggetto tanto anomalo e promettente ad averne giustificato la visione.

Autore: Mattia Caruso
Pubblicato il 06/06/2015

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