Terminator Genisys
Affossato da confusione narrativa e ironia fuori posto, il reboot della saga di Terminator ci ricorda (come Jurassic World) della difficoltà che ha Hollywood nel rinverdire il proprio immaginario.
Lui, lei, l’altro. Un triangolo sentimentale dalle geometrie conosciute, solo che questa volta ci troviamo l’amico che salva la madre del suo capo che è anche suo figlio. E a guardare il terzetto da lontano c’è un sornione nonno robot, l’unico con abbastanza presenza scenica da sopravvivere al trash in un set affossato da miscasting, ironia fuori luogo e uno script ambizioso ma inutilmente complicato, con troppi scivoloni nel ridicolo involontario.
Terminator Genisys tenta di fare quello che non è riuscito a Salvation – rilanciare la saga ideata da James Cameron con una nuova trilogia con paratesto multimediale annesso (serie tv e merchandising di sorta) – e la strada che intraprende non è certo priva di fascino. Seguendo l’esempio di quanto fatto da J. J. Abrams sul suo Star Trek, Genisys assorbe all’interno della propria realtà diegetica l’atto del reboot, sfruttando le pieghe dei viaggi temporali per imbastire una narrazione che sia libera di flirtare con il passato e assieme aprire nuove direzioni. E’ la cosiddetta retcon, retroactive continuity, cambiare un evento del passato per generare una nuova realtà parallela, e per la prima mezz’ora il risultato sembra anche funzionare.
Bypassata un’introduzione futuristica tutto sommato anodina, Alan Taylor ci trasporta infatti in una Los Angeles al neon dal sapore nettamente anni ‘80, i cui vicoli notturni colmi di immondizia fanno da O.K. Corral per cyborg ed umani. Qui il film dà libero sfogo alla sua vena fintamente nostalgica, tutto sommato cinica nella freddezza con cui manipola la materia di partenza senza preoccuparsi di andare oltre l’imitazione più superficiale. Tuttavia questo distacco non impedisce al gioco di funzionare: nella generale finzione dell’operazione quest’apertura è la parte paradossalmente più onesta, ponendosi a carte scoperte nel modo smaccato in cui lavora sull’immaginario di Cameron e sulla portata iconica di Arnold Schwarzenegger – vero motivo d’essere del tutto, che qui invecchia per scontrarsi con un sé stesso più giovane come solo un perfetto terminator può fare.
In questa prima fase assistiamo ad un vero e proprio chiasmo narrativo, anche intrigante se non fosse che invece di scioglierlo e lavorare sui personaggi tutta la seconda parte del film dà per scontato caratteri che non sono più (forse si sono dimenticati di averli cancellati), per infognarsi piuttosto in un rilancio all’eccesso che fa sballare totalmente il film. Il risultato è una giostra caotica afflitta da un complesso d’inferiorità che confonde l’esplosione facile con la grandezza visiva, e scambia tutta la sofferenza e l’angoscia e il sentimento dei primi due film con un’ironia farlocca e ammiccante che sembra avanzata dal montaggio del peggior film dei Marvel Studios. Torna in mente allora il deprecabile Thor: The Dark World, nel quale Taylor aveva già evidenziato incapacità e disinteresse a coltivare l’epos del proprio discorso cinematografico. Ma i problemi chiaramente trascendono l’intervento del regista – che qualche scena efficace riesce comunque a portarla a casa, nonostante gli insistiti rimandi agli scorci visivi di Bay gridino “vorrei ma non posso” – e ci riconducono non troppo a sorpresa dalle parti del coevo Jurassic World, altra riesumazione mediocre condannata al confronto con il classico.
Terminator Genisys e Jurassic World non sono film poi così dissimili: entrambi devono farsi carico di un’eredità ingombrante e decidono di riflettere a livello teorico sulla loro natura derivativa, che per essere gestita viene congelata in una citazione evidente e ripetuta.
Certo, nel suo gioco di rimandi il ritorno al giurassico ha dalla sua la forza della classicità spielberghiana, fondamenta che donano al film una solidità di partenza che Genisys non ha. Dall’altra parte il film di Taylor porta avanti quel legame tra macchina e uomo che alimenta tutto il cinema di Cameron, amplificando l’umanizzazione del terminator con la costituzione di un rapporto familiare e il confronto con la fallita sintesi rappresentata da John Connor. Tuttavia entrambi gli approcci sono un ottimo esempio di come oggi il cinema hollywoodiano faccia fatica a creare da zero un proprio immaginario, o meglio abbia deciso sistematicamente di non correre più rischi e di affidarsi sempre a qualcosa di preesistente e già dato. Quella che passa come mancanza di creatività è in verità il nadir del coraggio produttivo del cinema americano, ormai assuefatto all’incasso facile tramite franchise e riscritture narrative. In questo panorama un film come Jurassic World – che non vuole offrire nulla al di fuori del classico e mette in scena tale priorità all’interno della narrazione stessa – riesce a raggiungere un risultato potenzialmente accettabile nella sua assenza di autentica ambizione, nella volontà di non andare un passo oltre il passato. Terminator Genisys era invece un film da attendere con curiosità per la sua volontà di riscrittura attiva, ma il risultato è talmente vacuo e contradditorio da essere bruciante. Non c’è alcuna comprensione dell’identità del film, trattato a volte come un Transformers e altre come un nuovo Fast and Furious, ma soprattutto sulla confusione schizofrenica di toni e il parossismo visivo dalle gambe d’argilla domina indiscussa l’ironia: involontaria e imbarazzante in certi frangenti, ripetuta e ammiccante in molti altri, è lei la vera Skynet del blockbuster di oggi, entità astratta eppure onnipresente che pervade di sé ogni narrazione, scusa pronta per svincolarsi dal confronto mitopoietico con la macchina cinema per evitare di rendere evidente la propria incapacità di generare di nuovo mito.