Dossier Paul Verhoeven / 8 - Atto di forza
Film folle e pionieristico che anticipa le riflessioni sulla realtà virtuale, ma anche manifesto di un cinema che procede come un corpo deforme all'interno dell'industria hollywoodiana.
A rivederlo oggi, Atto di forza conserva ancora la potenza ludica e anarchica di un occhio capace di insinuarsi nei meccanismi di genere, riesplorando e ribaltando i crismi di tanta fantascienza anni ottanta, novanta.
Paul Verhoeven, l’olandese irriverente che sbarcò alla corte di Hollywood, è sempre stato un autore incredibilmente politico. Il suo sguardo procede per tracce mnemoniche, residui etici, esplosioni improvvise di violenza e impudiche deflagrazioni splatter che ci ricordano, frame dopo frame, che l’iperbole è il cuore selvaggio del cinema hollywoodiano.
L’esaltante furia iconoclasta dell’autore fa saltare in aria tutto come dinamite pura. Se la prende con le logiche bieche del capitalismo, arrivato fino a Marte per far pagare perfino l’ossigeno, con le vacanze-ologramma dei turisti del futuro, con la tirannia del potere e le possibilità narcotiche del sesso.
Il fatto è che ci sono tanti film in Atto di forza. Si parla di quarantuno, quarantadue draft di sceneggiatura: si dice che il problema fosse il terzo atto che continuava a non funzionare. Così lo script rimbalzava di produzione in produzione. Poi, alla fine, sulla barca salirono Paul Verhoeven e Arnold Schwarzenegger. Il racconto di Philip K. Dick è rimasto lo scheletro del film mentre, davanti ai nostri occhi, Verhoeven intelaia un leggerissimo inno alla potenza del sogno e alla forza dell’immaginazione, ma anche una riflessione ardita sulla sospensione dell’incredulità, sull’ontologia del virtuale, sull’ambiguità che conserva e struttura ogni immagine. Ed è qui, proprio qui, che Atto di forza non invecchia mai, rimanendo un film di un’attualità sconcertante, condensato nell’eterno presente di una bolla aumentata.
Dietro all’apparente leggerezza, c’è lo stesso esaltante furore che si può riscontrare in un film come Essi Vivono di John Carpenter (con cui, in un certo senso, Atto di forza presenta numerose, politiche affinità).
Allora le cose si fanno più complesse: subentra la continua messa in questione di quale sia lo statuto di realtà. Si tratta di un sogno, di una proiezione, di un videogame, di vita vera? Pensiamo a quell’inizio magnificamente artefatto, alla geniale patina di un’immagine fasulla, alla casa perfetta e a quella luce così deliziosamente laccata. Pensiamo ad Arnold Schwarzenegger che sorride come un improbabile uomo comune, quasi fosse l’operaio della porta accanto. Pensiamo a Sharon Stone, la bionda che scatenò le fantasie erotiche di almeno un decennio, iconica e seducente, emanazione di luce troppo bella per essere vera. E’ proprio nel suo personaggio che si annida il cinema, nelle sue forme che germoglia il seme del dubbio. Ancora oggi pensiamo: qualcosa non va.
Un sospetto ci assale, perché c’è qualcosa nella luce, qualcosa negli interni, qualcosa negli occhi di Sharon Stone…è qualcosa di finto, di costruito, un artefatto. Sembra quasi di stare in un Truman Show prima del tempo: ci rifiutiamo di credere che Arnold Schwarzenegger sia uno come noi. Lui è Conan il Barbaro, lui è Terminator, lui deve sparare ai cattivi, non può lavorare come operaio edile. Non si fa, non si può! Ed ecco, come d’incanto, sprigionarsi il cinema, il sogno ricorrente, il richiamo all’avventura: Marte. La fantasia di una nuova identità fa deragliare l’ordine costituito.
Giocando col testo filmico, si potrebbe quasi dire che Atto di forza racconti di come Arnold Schwarzenegger si ricordi di essere Arnold Schwarzenegger – con tutto ciò che questa nuova memoria comporta. Di quando, come e perché capisca che lui è diverso da tutti gli altri (e su questo Verhoeven lavora con un’ironia, un’astuzia, una consapevolezza propria solo del suo sguardo). Allora il viaggio comincia, rocambolesco come tutte le grandi avventure.
La luce rossa di Marte ci conduce in un mondo alieno dove riconosciamo tutta la spazzatura di una società – la nostra – ormai alla deriva. Un dittatore che sogna il controllo dell’intero sistema solare, un pugno di ribelli che lotta contro il potere costituito: la storia più vecchia del mondo, con tutto l’armamentario di proiettili, complotti, corse in auto e vorticosi, immancabili countdown. Qui il gusto per l’eccesso porta la sci-fi nei territori della coreografia eccessiva e del piacere proibito: cos’è Atto di forza se non uno sfavillante musical deforme dove la prima ballerina è un peso massimo di oltre cento chili? Ma non c’è solo questo, perché nel vortice ultracinetico dell’azione, Verhoeven insinua il dubbio di un film alternativo, di un’altra traccia possibile. Si pensi al beffardo, bellissimo finale, l’ultimo bacio prima di una possibile lobotomizzazione. L’happy end fasullo di un film che ribalta se stesso, ripensa e destruttura qualsiasi sospensione d’incredulità, chiede al pubblico di credere in lui e, un attimo dopo, sovverte se stesso. E se Schwarzenegger non fosse mai partito per Marte? Come a dire: e se Jodie Foster non fosse mai partita per lo Spazio in Contact di Zemeckis?
Il fatto è che Verhoeven è un sabotatore famelico ed irresistibile. Iniziamo a pensare, allora, che Schwarzenegger possa veramente essere un operaio edile e che Marte sia pura, complessa virtualità.
A rifletterci, nel suo essere così pionieristico, Atto di forza è il film di Verhoeven più vicino ai sogni nei sogni di David Cronenberg (del resto sembra che Cronenberg stesso dovesse dirigerlo). L’ordine di realtà continuamente messo in questione da Videodrome, Cosmopolis ma soprattutto ExistenZ trova in Atto di forza la sua dimensione più muscolare. Perché Verhoeven, da abile pirata dei generi qual è, sa cosa il pubblico vuole, sa quando lo vuole. Sa che un’esplosione non basta, che Schwarzenegger con un pugno può fare volare i suoi nemici, che i cattivi devono essere supercattivi e morire male (meglio ancora se con le braccia staccate dal corpo), che Sharon Stone, puro oggetto del desiderio, deve essere spietata e doppiogiochista e, last but not least, che le due attrici supersexy devono suonarsele di santa ragione. Ma sa anche che tutte le immagini mentono, che al cinema si può credere solo se viene messo in dubbio. Il genere, allora, diventa un meccanismo di continuo svelamento e ribaltamento, un rimbalzo frenetico tra sogno e realtà: immagine immaginaria.
Se ancora oggi Atto di forza rimane uno dei film più interessanti sulla realtà virtuale e le sue infinite potenzialità epistemologiche, è anche un caso pionieristico nella Storia del cinema. Pensiamo solo allo sperimentale uso della computer graphica nella scena degli scheletri a raggi x. Verhoeven si muove subito con tremenda, invincibile ironia: dopo essere passato per il futuro digitale del cinema (e in questo è davvero profetico), Schwarzenegger rompe il vetro in mille pezzi e ritorna alla gloria dell’analogico, degli effetti speciali e dell’artigianato. Come a dire: fanculo tutti, io non ci sto!
Ritorna volontariamente in un mondo di occhi che esplodono e grasse signore deformi che, letteralmente, si aprono, rivelando l’ultimo travestimento di Conan il Barbaro. Dio, quanto ci manca questo cinema!