American Fiction
L'invettiva politica si stempera nella farsa nell'opera prima di Cord Jefferson. Una commedia drammatica che dice molto su cosa sia oggi l'industria culturale statunitense, non senza qualche programmatica semplificazione.
Tratto da un romanzo del 2001 (“Erasure” di Percival Everett) ma adattato in modo da essere perfetto per i nostri tempi, a prima vista sembrerebbe quasi che American Fiction voglia elevarsi a programmatico bilancio degli ultimi anni, di ciò che Black Lives Matter (e non solo) ha rappresentato per l'industria culturale statunitense. Eppure, a guardarlo meglio, il film d'esordio di Cord Jefferson (sceneggiatore per serie come Master of None, The Good Place e, soprattutto, Watchmen) è prima di tutto una farsa, una commedia drammatica dove pubblico e privato, politica e vissuto personale si mischiano e confondono tra loro, restituendo l'immagine di un Paese dove tutto è storytelling, (auto)fiction, narrazione (di sé).
Messi da parte i toni incendiari o militanti cui il soggetto si sarebbe potuto prestare, è così chesi anima la vicenda di Thelonious Ellison - detto Monk (un più che perfetto Jeffrey Wright), scrittore in crisi i cui ponderosi volumi vengono snobbati da case editrici che paiono avere occhi solo per storie “da ghetto” (e, quindi, per i lettori bianchi almeno, infinitamente più reali) -, proprio quando vengono messe in scena le idiosincrasie e le nevrosi del suo protagonista, il rapporto con una famiglia inevitabilmente disfunzionale (dalla madre malata al fratello scopertosi viveur, passando per il rapporto altalenante con la nuova compagna) e lo scollamento da una realtà divenuta ormai lo stereotipo di se stessa.
"I bianchi dicono di volere la verità, ma non è vero. Vogliono solo sentirsi assolti”, dice Arthur, l'agente di Monk. Una lezione che il protagonista è costretto a imparare a proprie spese quando il suo romanzo-parodia (My Pafology, poi ridotto a un lapidario e ancora più “vernacolare” Fuck), scritto di getto e sotto pseudonimo per scimmiottare le narrazioni “da strada” tanto in voga (“libri che i bianchi definiscono importanti e necessari, ma non ben scritti”) e mettere finalmente il pubblico di fronte alla propria ipocrisia, viene invece preso sul serio, fagocitato da un'industria che decide da sé cosa sia o non sia letteratura black, distribuendo arbitrariamente etichette e patentini di autenticità e promuovendo ancora e ancora gli stessi stereotipi.
Adottando lo sguardo privilegiato e borghese del suo protagonista, la sua nevrotica quotidianità lontana anni luce dai cliché dominanti, American Fiction guarda così – in modo insolito e sagace, sebbene non senza qualche automatismo di scrittura, specchio di una satira sempre precisa e puntuale ma mai davvero graffiante – dietro le quinte di quella che è, oggi, la narrazione della comunità afroamericana. Un mondo fatto di paradossi e contraddizioni dove la verità e la realtà vanno a perdersi dentro un meccanismo di scatole cinesi (lo stesso film, con le sue ben 5 nomination agli Oscar, non è in fondo un altro modo per l'establishment di lavarsi la coscienza?), mentre l'ipocrisia diventa l'arma anche dei più benintenzionati. L'unico modo per leggere tra le righe di un sistema dove tutto resta, sempre e comunque, bianco o nero.