Cut

“Cut” o del cinema infinito.

Amir Naderi l’ha raccontato in più di una occasione quando tutto è cambiato, quando tutto è iniziato. Quando, cioè, a 12 anni, ragazzo di strada, nel negozio di fotografia a Tehran dove lavorava, e spesso la notte dormiva, ha iniziato a utilizzare una cinepresa Super8 quando il proprietario non c’era. 3 minuti di girato, le riprese di quelle persone in strada fuori dalla finestra, in un negativo spedito a un laboratorio in Germania, e, tempo dopo, l’arrivo da lì di un positivo all’indirizzo dello studio. Epilogo? Rimproveri e botte del proprietario, Amir cacciato via e un film in tasca senza la possibilità di poterlo vedere.

Ecco, forse proprio questo Cut, presentato alla Mostra di Venezia 2011 nella sezione “Orizzonti”, è il film che più assomiglia a quel bambino. Probabilmente più del ragazzino protagonista di Il corridore, l’opera più autobiografica del regista iraniano che precederà l’ultimo film in patria, Acqua, vento, sabbia del 1988, dopo ci saranno gli Stati Uniti, una nuova terra, la nuova casa, la trilogia di Manhattan tra gli anni Novanta e il Nuovo Millennio, e ancora film come Sound Barrier e Vegas: Based on a True Story. Cut, parola, o meglio gesto, che di norma serve a riabilitare confini, a stabilire un ritorno alla realtà, una distanza di sicurezza, la rottura improvvisa di una sospensione. Ma per Naderi non è così, anzi. Perché, scrive Enrico Ghezzi, «dice sempre “cut”, Amir, quando finisce una telefonata un discorso una frase una parola. Un’altra forma del suo sapere che tutto si monta è stato smontato si smonta formicola incessantemente, un’altra verifica onesta del proprio essere nella catastrofe del cinema e del donarcelo, così come al cinema consegna il proprio corpo biografico per un’anatomia automatica, per un act of seeing non meno vivomorto di quello di Brakhage»[1]. E allora non ci sono steccati tra il set e la vita, i confini sono altri, come racconta lo stesso regista: «Mi piacciono le sfide, la dimensione del rischio e della follia, sfondare le linee di demarcazione e andare oltre. I miei personaggi sono uguali a me […] Nelle situazioni impossibili trovo me stesso. Spingendomi sempre verso situazioni estreme, spingo anche i miei personaggi e l’intero film verso il limite»[2].

Cut, come il suo cinema, è proprio questo, il protagonista è quel sentire il cinema di Naderi a 12 anni, come fosse sempre la prima, splendida volta, una scoperta di bambino. È un gesto d’amore immenso e una straordinaria storia del cinema, il futuro del cinema che attraversa la sua memoria, il passato, dentro quelle immagini, il bisogno insopprimibile, come vivere, come respirare, di farlo e crearlo ancora e sempre, come immaginarlo, sognarlo. È inventarlo, vederlo. È un atto di resistenza e un desiderio, è il film di Naderi che torna a errare, va in Giappone dove già insegna cinema, un Paese di cui ama i maestri della macchina da presa, un film nato dall’incontro casuale anni prima con l’attore Hidetoshi Nishijima, come lui nostalgico del cinema nipponico del passato, e che diventerà Shuji, il protagonista di Cut. Ossia, un giovane regista che dai tetti della città e per le strade, imbracciando un megafono, urla il bisogno di tornare al cinema di una volta, quello che mostra a un pubblico di appassionati nelle proiezioni allestite sulla terrazza di casa sua, una casa ultratappezzata di foto e manifesti della sua ossessione cinefila, contro la pochezza delle immagini e delle storie del presente. Shuji, che a un certo punto si ritroverà a dover restituire, con scadenza a brevissimo termine e la morte come esito se non vi riuscirà, una notevole quantità di denaro all’organizzazione criminale per la quale suo fratello Shingo lavorava, fino a quando non è stato ucciso dalla stessa a causa proprio di questo prestito non onorato. Soldi che peraltro avevano permesso a Shuji di realizzare i suoi film. Tocca a lui estinguere il debito. L’unico modo che trova per farlo, però, è farsi pagare offrendosi come oggetto da prendere a pugni dagli avventori della palestra/bisca che appartiene alla banda, come fosse quel sacco a pochi metri dal ring. Ma l’unico posto dove è disposto a farsi picchiare è il bagno, lì dove hanno giustiziato Shingo. E lì, fino all’ultimo giorno, il protagonista ritorna, fino a quel finale meraviglioso, in cui gli ultimi 100 pugni necessari a restituire l’ultima parte di soldi diventano i più grandi 100 film della storia del cinema. Per Shuji. Per Naderi. È qui che il Cinema esplode e rinasce. Il Cinema, sì. Ed è qui che Naderi riesce ancora una volta ad annullare ogni possibile retorica, ogni possibile discorso, nel desiderio e nell’incanto. Nella vita, che continua. In un altro film che il protagonista potrà realizzare. Questo è il suo miracolo, il miracolo di Cut, di un regista formidabile. Perché Naderi è Shuji che fa visita alle tombe di Kurosawa, di Ozu, di Mizoguchi; perché Shuji è il Cinema, quel volto tumefatto e sanguinante che chiede di essere colpito ancora, come un‘ossessione, come una scena, come scene che ritornano, il Cinema è un corpo-schermo disteso sul quale le immagini scorrono, vivono, è quel corpo stremato e muto negli occhi dolci di una ragazza forse innamorata che si chiama Yoko (Takako Tokiwa), nelle sue mani. Il Cinema, per Naderi, è quel segreto, quel bambino che nei 3 minuti di Super8, in quelle immagini catturate senza poterle rivedere, sta cercando il mondo.

[1] Enrico Ghezzi, (Amir Naderi) catastrofe con rima, in Massimo Causo, Grazia Paganelli, Il vento e la città. Il cinema di Amir Naderi, Il Castoro, Milano 2006, p. 158.

[2] Amir Naderi, Oltre la linea del suono, in Alessandro Cappabianca, Lorenzo Esposito, Bruno Roberti, Daniela Turco (a cura di), Senso come rischio. 60 anni di Filmcritica, Le Mani, Recco – Genova 2010, p. 174.

Autore: Leonardo Gregorio
Pubblicato il 23/03/2015

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