First Man - Il primo uomo
Più che un biopic su Neil Armstrong, il nuovo film di Damien Chazelle è una lunga odissea interiore costantemente attraversata dallo spettro della morte.
A pensarci bene, dal musical allo spazio il passo è breve: il problema è di ordine gravitazionale. Il sogno icariano si scontra con l’inevitabile, fisiologica caduta. È la storia più vecchia del mondo.
Dal cielo stellato di La La Land - retaggio romantico di un cinema classico e aereo - ci troviamo catapultati nel silenzio cosmico di una storia vera. Damien Chazelle, fin da quell’epidermico, folgorante incipit, chiarisce le carte in tavola: First Man - Il primo uomo non è un biopic su Neil Armstrong né tantomeno la cronaca del celebre allunaggio. E – cosa ancora più sorprendente – non è un film sull’evento mediatico più famoso del Novecento. Chazelle fa un passo indietro: la sua è un’odissea umana, tutta interiore, che inscena una complessa, sofferta elaborazione del lutto. Il racconto di un sogno durato dieci anni – quello che porterà Neil Armstrong sulla luna – è costellato da un susseguirsi impressionante di lutti. La morte è il grande spettro di First Man che, imperturbabile, sembra attrarre ogni cosa a sé.
Neil Armstrong è al centro di questo vortice e, lentamente, si lascia morire dentro. Dopo la scomparsa della figlia, la famiglia diviene per lui un’ombra, l’eco melanconica di un presente plumbeo e rarefatto. Le grida di gioia dei figli lo raggiungono ovattate, gli occhi della moglie lo cercano in ogni dove, gli amici lo chiamano dall’oscurità, ma lui non sente niente. Apatico, in dei frangenti quasi atarassico. Il mondo abita lontano anni luce e non fa poi tanto rumore. L’Armstrong di Chazelle erige un muro fra sé e il resto, perde qualsiasi dimensione orizzontale, guarda solo al cielo come ignoto non da conquistare – ma da ritrovare. La luna è l’ossessione che lo fagocita giorno dopo giorno, il sogno di un’altra vita. Lo si ripete per tutto il film: andare sulla luna significa ampliare gli orizzonti, cambiare punto di vista, varcare i propri confini. La Terra ancora Armstrong a sé, lo fa cadere e fallire, infine lo proietta verso un’epifania che non ha nulla a che fare con la Storia ma solo, unicamente, con la propria intimità. Con il proprio sguardo.
Ecco perché First Man è un film di focali lunghe, di scosse percettive, di dettagli e primissimi piani che escludono, violentemente, tutto il resto. La macchina a mano terremota lo sguardo, insieme a un sound di ipnotiche suggestioni mnemoniche. Questi teleobiettivi spinti, queste compressioni di ambienti, macchine, volti, finiscono per eliminare la distanza fra le cose. L’universo è nei dettagli, negli spazi compressi, negli occhi di chi guarda. È una questione soggettiva, millimetrica, un riflesso dentro di noi (in questo Chazelle ci fa pensare allo Zemeckis di Contact o ai microcosmi di un Malick ingrigito). Il film si accende e si spegne nello sguardo di Armstrong, tutto è nella sua testa e nel suo dolore. L’evento – la morte della figlia – fa germogliare la rêverie lunare. In maniera sorprendente, Chazelle realizza un’opera ardita e claustrofobica, che vive di intuizioni meravigliose eppure…eppure non riesce mai a compiere quel piccolo (grande) passo. Non riesce a liberarsi da quello stesso sguardo che lo aveva a sua volta liberato.
Il mondo interiore di Armstrong, i suoi sogni, le sue sconfitte, non fuoriescono dai territori razionali di un’elaborazione fin troppo ponderata. Non si scalfisce la superficie, non si vola oltre, ma ci si scopre immobili insieme a lui. L’allunaggio, filmato con meravigliosa tristezza, ci lascia appena assaporare un tempo interiore, senza lasciarsi andare allo squilibrio, all’estasi o alla visione – come invece ci saremmo aspettati. Uno come Zemeckis avrebbe forse creato cordoni immaginifici con la figlia, qui siamo certamente in altre dimensioni, ma la sensazione è che Chazelle abbia sentito il bisogno di controllare, di frenare e – soprattutto – di tornare a casa, respingendo derive squisitamente melò. Alla fine scopriamo che il primo uomo è anche quello che conosciamo di meno, rimasto immobile a contemplare l’algido splendore lunare. Si congela e congela anche noi con lui. Chazelle getta le basi per un film potenzialmente liberissimo, in cui la luna è il riflesso di tutti i nostri sogni – perfino quelli escatologici – ma poi sente il richiamo pesante della Storia, la necessità di un ritorno (le immagini d’archivio così estranee al cuore del film da risultare forzate, il discorso di Kennedy, ma anche le contestazioni ai fondi per le missioni spaziali: peccato, perché l'intuizione di tenere completamente fuoricampo il mondo e la Storia per soffermarsi su un viaggio totalmente interiore, è la vera forza del film).
First Man, del resto, non riesce a perforare la durezza del suo protagonista, la sua sfera emotiva, ci tiene distanti, finendo inevitabilmente per frustrare le nostre aspettative. Basti pensare al personaggio della moglie, interpretato da una stupenda Claire Foy (ogni suo primi piano – va detto - sprigiona una forza cinematografica talmente dirompente da annientare tutto il resto). Il film la sfiora, la corteggia, la liscia, ma non riesce davvero a conoscerla. Per tutta la sua durata aspettiamo un confronto vero con il marito che non avviene mai, lasciandoci il sospetto che lei esista, unicamente, in funzione di lui (anche l’ultima discussione sui figli va in quella direzione). Del resto un vetro li separa perfino nel finale. Forse non si lasceranno mai, ma non possono toccarsi né sentirsi. Vivono nella distanza. E noi ci rendiamo conto che, in fondo, non conosciamo bene né lui né lei.
Sappiamo solo che tra loro due c’è la luna.