Women Talking - Il diritto di scegliere
Fresco di Oscar alla Miglior sceneggiatura non originale, il film di Sarah Polley interroga un gruppo di donne mennonite che deve dar voce alla propria coscienza e ai propri diritti, partendo dalla ricerca di un linguaggio che dia nome al mondo circostante e a sé stesse.
Donne che parlano, dice il titolo. Ignoriamo pure l’aggiunta italiana de Il diritto di scegliere, che almeno qui si integra e non sostituisce il titolo originale, come in Hidden Figures, da noi diventato Il diritto di contare (sempre a proposito di donne che fanno, donne che rivendicano cose). Un titolo da #metoo, da statuetta (che infatti si aggiudica, in particolare quella per la miglior sceneggiatura non originale), un titolo che quindi suggerisce una riduzione a riflessioni da superficie, manifesto fatto di tautologie. Non è propriamente così.
Sarah Polley, che dentro al cinema ci sta da quand’è nata, conosce i modi più diffusi della scrittura per immagini, specie per come queste descrivono la natura e la composizione dei rapporti umani. In Women Talking (tratto dal romanzo omonimo di Miriam Toews), l’autrice approda al momento in cui una scrittura, meglio, un linguaggio, deve formarsi per la prima volta, sostanziarsi per dare forma alle cose attorno attribuendovi un nome, anche mediante l’ausilio didascalico di una voice over narrativa. Le protagoniste sono donne di una comunità di mennoniti che vengono narcotizzate durante la notte per essere abusate e violate dai loro uomini. Ma un giorno, uno di questi viene colto in flagrante mentre abusa di una bimba di 4 anni. Linciato quasi a morte da una delle madri, poi catturato dalle autorità e pronto a essere liberato su cauzione dagli altri uomini, alle donne non resta che riunirsi e decidere, tramite un voto, del proprio destino: restare nella comunità perdonando il gesto, così da accedere al regno dei cieli (secondo quanto disposto dagli uomini); restare per combattere, rischiando il tutto per tutto; allontanarsi definitivamente dalla comunità. Il risultato è uno spareggio tra le due opzioni estreme della lotta e dell’allontanamento.
L’elemento significativo è che nessuna delle donne, da tradizione e formazione mennonita, sa scrivere e si è mai cimentata nell’attività per loro ardita di una discussione. La riunione definirà allora un nuovo precedente storico per le donne, un evento dalla portata secolare, e per questo andrà redatto, verbalizzato, affidato alla scrittura che non è vittima dell’impermanenza (a opera dell’unico uomo presente nel film, August, un Ben Whishaw da anni in grande ascesa). E le donne, che di questo incontro sono il soggetto, vengono costruite secondo una caratterizzazione che idealizzi e rispetti i tipi classici di una dialettica: Ona (Rooney Mara) è simbolo di una medietas riflessiva, pondera i gesti e le conseguenze; Salome (Claire Foy) prepara una vendetta personale frutto di decisioni istintuali, pronta a sacrificare il suo accesso al regno dei cieli; Mariche (Jessie Buckley) è la voce della remissività, cede il passo alla disillusione. Poi ci sono Agata e Greta, le più anziane, che danno espressione l’una alla saggezza cristiana, l’altra a quella personale fatta di simboli e metafore (come quelle sui cavalli in fuga). Ognuna dà voce a un tipo umano che deve entrare in confronto dialettico con l’altro, facendo del film più che un manifesto femminista un modello di oratoria tradizionale.
Nella messa in campo di questa maieutica da formare da zero, la chiave è appunto nel determinare le cose attribuendovi un nome, nel suturarle poi sintatticamente per concatenare e finalizzare il pensiero (così in voice over Autje, la ragazzina che narra gli eventi: “dove mancava il linguaggio, c’era un profondo silenzio. Ed era in quel silenzio che si celava il vero orrore”). Senza questa formazione che tenga conto dell’infinita spaziatura tra le parole che danno sostanza alle decisioni, tra “l’andarsene” (decision to leave) e il “fuggire”, alle donne non resterebbe che l’esilio dalla propria coscienza e del proprio corpo.
L’abuso subito da Ona in apertura, poi richiamato in più momenti lungo il film come immagine incubale, la vede ripresa in plongée, incosciente e violata, i lividi tra le cosce. Una scelta formale che traduce l’allontanamento dal proprio corpo, l’impossibilità di appartenervi. Sarah Polley lavora benissimo a questa dosatura, all’affiancamento tra parole e immagini (pur cadendo spesso nella tentazione del commento in voice over che si fa puro pleonasmo). Alla coscienza livida e smunta delle donne corrisponde un’immagine estremamente pallida, diafana. Di più, dentro le immagini crepuscolari e pulviscolari dei campi di granturco e dei corpi femminili colpiti dalla luce morente del sole, in cui c’è ovviamente Malick e soprattutto Reygadas (Miriam Toews, autrice di Women Talking, è stata protagonista di Luz Silenciosa, incentrato proprio su una comunità di mennoniti), si viene a plasmare un mondo senza tempo. Potremmo essere in una colonia americana ottocentesca, primonovecentesca, e invece ci troviamo nel 2010 (con l’ausilio della sola coordinata cronologica che giunge da un report della radio). Per un attimo, quando ne veniamo a conoscenza, l’effetto di straniamento è notevole: l’atemporalità delle immagini ci ha spinto ben al di là di quello che avremmo creduto. Ne viene, a ben vedere, la suggestione più significativa di tutto il film: l’idea di ripensare, ponderare di nuovo su quello che abbiamo fino ad allora guardato, operare un rapido ri-orientamento, trovare un linguaggio e gli strumenti che compensino l’insufficienza di coordinate e di significato. Dare un nome alle cose per starci dentro e comprenderne la statura.