Babylon
Un kolossal anacronistico che abbraccia l’eccesso, smarrisce il sentimento e comunque infesta gli occhi, attraversa il corpo. Cinema come rito sciamanico, con un occhio ai film e gli spettatori di là da venire.
Tonitruante. Gargantuesco. Mesmerizzante. Usate l’aggettivo barocco che volete, a vostra discrezione, per descrivere la Babylon di Damien Chazelle. In alternativa andrà bene anche un sempreverde eccessivo, il classico fuori controllo, finanche travolgente, ma non proprio nel miglior senso del termine. Babylon è certamente tutto questo, nelle sue tre ore abbondanti di visione contiene ogni definizione e giudizio, ma il suo peccato peggiore forse è proprio il volerlo essere, raccoglitore e film-mondo degli eccessi, il suo predisporsi ad accogliere questi e altri epiteti – e ce ne saranno di più bassi e triviali, possiamo scommetterci – come tratti distintivi e programmatici. E tuttavia sarebbe un errore prendere Chazelle per un bardo qualunque, un Iñárritu del film jazz&cocaina, accumulatore barocco senza limite. Perché se è vero che Babylon è un film che non funziona per mille e un motivo – si perde i personaggi per strada, tanto che è difficile amarne e sentirne realmente qualcuno; si concede pause e parentesi a ripetizione, gonfiandosi in bolle d’aria pronte a scoppiare; si accontenta di risolvere i principali nuclei drammatici attraverso schemi narrativi molto rigidi; si guarda allo specchio amandosi un po’ troppo, con molta autoindulgenza e confusione – se insomma è un film che rischia costantemente di cadere in sé stesso, c’è comunque qualcosa che resta, nonostante e forse proprio attraverso i suoi limiti e mancanze di misura, qualcosa che si deposita negli occhi e nello stomaco, attraverso immagini infestanti e un ritmo visivo irrefrenabile, quasi occulto e sotterraneo. Qualcosa che ha a che fare con la corporeità del nostro guardare, con la ricezione viscerale, sanguigna, pupille che si dilatano e battito che accelera, pancia che si contrae e piedi che tengono il tempo, e vanno per conto loro. Chazelle fa della sua Hollywood Babilonia un rito sciamanico, che non si risparmia discese agli inferi lynchiane né rinuncia ai refrain voyeuristici di chi intende l’immagine come dispositivo atto a innescare processi desideranti e clandestini. Babylon manca clamorosamente i suoi obiettivi sentimentali, la cornice cui si aggrappa in cerca della riconoscibilità commerciale più facile dopo il successo di La La Land, perché l’ossessione che in realtà cerca si muove più sotto di arterie e ventricoli, è ferale e chimica, parla la lingua della carne e del sesso umido. Neanche a dirlo l’energia straordinaria di Margot Robbie è ciò che sostiene e permette l’aggressività ritmica e visiva del film, il bisogno della sua Nellie LaRoy non tanto di sfondare quanto di sfruttare le vette del successo per operare da lì uno schianto clamoroso, che sia il più spettacolare e chiassoso possibile. Autodistruzione su palco, che tutto si chiuda in un’ultima eclatante fiammata, tra narici corrose dalla droga e fegati zuppi di alcol.
A conti fatti la scena che meglio rende giustizia a Babylon è quella in cui Jack Conrad – il personaggio interpretato da Brad Pitt che, come tutti gli altri, riassume le idiosincrasie e sventure dei tanti attori cresciuti nei roaring twenties del cinema muto e travolti dall’avvento del sonoro – si presenta sul set dell’ennesimo kolossal storico all’apice di un’epica sbronza, barcollante e stufo, salvo sparire e reinventarsi (non nel personaggio, inconsistente, quanto nelle maglie del cinema stesso) al momento del ciak. È lì, tra un azione e uno stop che avviene un qualche tipo di miracolo, quando il singolo sublima e diventa immagine. Un passaggio di stato che impiega la lingua dei fantasmi, come Chazelle dice testualmente quando del cinema si parla in termini di echi e immortalità, figure e paesaggi persistenti nella retina del tempo. Ma al netto della fascinazione e dell’efficacia – subita o meno – del ritmo stregonesco, non vediamo in Babylon un film mortifero sulla fine del sogno e la morte dello studio system, o ancora un gesto nostalgico formalista innamorato di sé stesso e poco altro, ombelicale. Perché se è vero che dei protagonisti ci importa poco o niente, la parabola da seguire è quella dello sguardo spettatoriale, delle vite che cambiano davanti il grande schermo e lì ritornano, sotto forma di storie pronte a loro volta a farsi possedere dalla generazione successiva di spettatori. A Chazelle si deve riconoscere un coraggio (o se volete presunzione) non da poco; dopo il successo di La La Land fa tutto tranne che ripetersi, tra l’intimismo anti-spettacolare di First Man e il caos rigurgitante di Babylon, ma per quanto si allontani il suo è un cinema che torna alle origini del guardare, al primigenio innamoramento per il grande schermo. Per questo il film-mito originario resta Cantando sotto la pioggia, capolavoro senza tempo che Chazelle cerca di ricostruire in forma drammatica e sanguigna. Messa così l’operazione non funziona né può davvero funzionare, ma forse se c’è un punto di accesso in Babylon non è nel film di Minnelli ma in chi torna e ritorna a guardarlo. La ciclicità appunto, il rito che dal set si riperpetua nelle sale e che Chazelle evoca nel finale con un tour de force godardiano che sfugge la morte e apre al futuro, spingendosi fino a Matrix, Avatar e l’immagine digitale, ai nuovi film e spettatori di là da venire.
Tonitruante, gargantuesco, mesmerizzante. Eccessivo, fuori controllo, travolgente. In piena Franchise Age, tra algoritmi e screening test, ad avercene di film così, privi di compromesso e volti all’autodistruzione.