Dove bisogna stare
Il racconto di quattro donne impegnate nell’accoglienza dei migranti per ricordarci le fondamenta e le difficoltà dell’aiuto umanitario.
Che quello dei migranti sia un falso problema, in Italia, oggi, è un fatto. Almeno non il principale, dato che istruzione, lavoro e i salari tra i più bassi d’Europa rappresentano un allarme ben più significativo. C’è da fare i conti, tuttavia, col problema della percezione della realtà, travisata da una parte dell’elettorato (modesta, se rimaniamo sui risultati delle urne; preoccupante, secondo gli ultimi sondaggi) per colpa di pseudo ministri e media leghisti a caccia del capro espiatorio. E allora dagli al negro, “che se ne torni a casa che qui non c’è posto che anche qui stiamo messi malissimo”.
Dove bisogna stare tenta di fare chiarezza. Daniele Gaglianone sceglie di seguire le vite autentiche, comuni e tuttavia audaci di quattro donne coinvolte nell’assistenza ai profughi, i quali non compaiono quasi mai e quando entrano in campo si nascondono. Il lavoro, appunto, perché aiutarli è, intanto - tentando kafkianamente di rispettare la legge - una professione tra le più nobili. “Arricchente”, come afferma una delle protagoniste. Ma ci vuole anche una certa cultura, una visione del mondo cosmopolita che presupponga un’etica esemplare e la conoscenza profonda della complicata burocrazia che regola i flussi. Capiamo che però l’impiego di Jessica, Lorena, Georgia ed Elena è soprattutto una missione, perché di soldi se ne vedono pochi e la loro è più che altro un’umanissima abnegazione. Come ha affermato il regista, “la posizione dello Stato è quella, paradossale, di un assenza sempre presente”.
Presentato al festival di Torino e da poco in programmazione in pochissime sale (a Roma, in questi giorni, è all’Apollo 11), l’ultimo lavoro di Gaglianone si concentra sulle persone, piuttosto che sull’iter legislativo o sulle implicazioni sociologiche, perché sono queste a fare davvero la differenza. Se il problema dell’Italia non è l’immigrazione “clandestina” e se il fenomeno, in ogni caso, genera spesso attriti e malumori nelle collettività locali (come i bivacchi alla stazione di Como, cavalcati mediaticamente da Salvini senza dare la minima spiegazione delle cause), si evince dalle preziose testimonianze del documentario che i motivi sono da ricercare nella mancanza strutturale di una macchina organizzativa realmente capace di affrontare la questione.
L’eccessiva semplicità dei punti di vista (quattro donne, quattro generazioni, quattro provenienze e mansioni diverse) potrebbe rappresentare il grande limite del progetto, a prima vista incapace di affrontare la questione in tutta la sua complessità. In realtà, le parole, i volti, la quotidianità e le lacrime delle protagoniste arrivano più lontano di un’analisi organica ed eterogenea perché centrano in pieno il senso dell’assistenza, quello per cui esseri umani aiutano altri essere umani e tutto il resto rappresenta una sovrastruttura talvolta insufficiente. “Dove bisogna stare” è proprio lì, in quegli uffici, nei centri sociali e nelle case occupati o aprendo la propria casa a ragazzi in difficoltà ma è anche il triste imperativo prima di uno Stato e poi di un mondo alla rovescia che impedirebbe di muoversi liberamente al suo interno.
Nonostante la portata invisibile dell’operazione (che il cinema documentario in Italia non arrivi quasi mai al grande pubblico è un altro fatto), Dove bisogna stare possiede, dunque, una vocazione mainstream insospettabile proprio per la capacità di parlare alla pancia e al cuore del pubblico, evitando un discorso filmico particolarmente elaborato e lasciando invece fluire liberamente i racconti delle intervistate. Non è un caso, infatti, che i titoli di coda rivelino la collaborazione, oltre che con Medici Senza Frontiere, con Rai3-Doc3 e quindi, probabilmente, il passaggio sulla tv generalista e la successiva permanenza sui canali on demand. Ecco allora che l’estrema accessibilità dell’opera si iscrive nella precisa volontà di ristabilire la giusta percezione del fenomeno migratorio ricordando che l’aiuto umanitario si fonda soprattutto grazie a (uomini e) donne nei quali è facilissimo rispecchiarsi.