The End? L'inferno fuori
Lo zombie-movie di Misischia è un progetto low budget dove la voce umana definisce le traiettorie di un fuori campo apocalittico
Nella difficoltà di trovarsi negli scomodi panni dell’inventore di storie nuove (d'altronde già nel ‘300 Petrarca sosteneva che tutto fosse già stato scritto e pensato e per rifarlo – con originalità - bastava cambiarne il metodo di rappresentazione) Daniele Misischia (regista e sceneggiatore), insieme ai fratelli Manetti nei panni di produttori, in The End? L'inferno fuori adotta uno stratagemma molto contemporaneo: il cut & paste di soluzioni cinematografiche già viste, conosciute ed amate, ridefinite e ricomposte poi attraverso una miscela pop vincente. Con un inizio algido alla Schumacher (come in Un giorno di ordinaria follia) e proseguendo unendo le unità drammatiche di tempo e luogo (come in Zombie), la scrittura, per budget e/o per necessità di massimizzare un’idea basata sull’economia delle risorse, ristringe ancora di più le possibilità dinamiche dei protagonisti all’interno di un ascensore bloccato tra due piani di un grande ufficio (Devil e Piano 17 degli stessi Manetti Bros), e dopo aver esteso il concetto di fuori campo drammatico tramite l’utilizzo della voce over (esempi: Berberian Sound Studio e, in particolare, Pontypool) tende verso un finale mathesoniano (o boyleriano, tipo 28 giorno dopo); Misischia, quindi, riesce nell’operazione cine-sartoriale tagliando e cucendo un mash-up che, tra una suggestione cinematografica e l’altra, trova il suo spessore d’originalità e di divertimento su di un abito interpretativo disegnato su misura per il suo protagonista. Alessandro Roja, svestiti i panni del dandy criminale, è un lucido e sadico uomo d’affari, disposto a tutto pur di calpestare chiunque lo ostacoli. In prossimità della chiusura di un importante affare, resta bloccato nell’ascensore del suo ufficio, da lì inizia un incubo zombie che si consuma dentro a mura di vetro in una Roma glaciale come l’animo dei suoi abitanti.
Misischia si cimenta in un film che per l’80% della sua durata è contenuto dentro un unico spazio ristretto. La capacità del regista di creare estesioni spaziali, attraverso un sapiente uso della mdp, concede al film la giusta frenesia della narrazione scavalcando le sabbie mobili della stagnazione ritmica narrativa; inoltre, la capacità di dilatarne lo spazio gli consente di non restare ingabbiato nella sua limitata ampiezza scenica. La voce over del telefono\interfono, meccanismo che consente di fuoriuscire dalla ristrettezza del cabinato attraverso la possibilità dell’accadimento fuori campo, è il giusto veicolo per far evolvere la narrazione zombiesca lasciando su di Roja l’onere della centralità attoriale. La Roma di Misischia è una città livida, senza alcun compromesso, spietata quanto la fame di successo affaristico rappresentato e che non si consuma nell’opposizione tra i vivi e i morti. Anzi, all’archetipo sociale zombiesco il regista oppone una scalata verso i vertici dell’azienda, una scalata orizzontale, in una strage di colletti bianchi, di colleghi letteralmente calpestati, il tutto in una quotidianità lavorativa che si tinge di morsi e sangue. L’atmosfera orrorifica è insaporita dal dialetto romanesco che stempera in commedia le sequenze, non risultando mai stucchevole ma concedendo, come spesso accade con generi annoverati nella postmodernità cinematografica, un sapore grottesco figlio di una rilettura comedy di un genere orrorifico già ampiamente trattato.
Attraverso il Manetti Touch Misischia fa rendere al meglio un genere geneticamente importante, delicato ed continuamente riproposto (ma ancora riproponibile) come lo zombie-movie dando nuova energia ad una narrazione di per sé prevedibile, liberandola dalla trappola dell’eccessivo budget produttivo e dell’integrale ripetività tematica ed espressiva.