Eventi casuali riempiono le giornate comuni, affastellandosi come tessere di un mosaico inesistente che ognuno tenta vanamente di razionalizzare, unendo le fila in una corrente di pensieri logici, nell’illusione necessaria di fornire una minima spiegazione. Il senso, tuttavia, continua a fuggire di mano, fino all’eclisse nella confusione. Il regista sudcoreano Hong Sang-soo esplicita l’essenza di gesti e parole fortuiti in una sintesi dell’ordinarietà che assurge a poesia.
Presentato con successo a Cannes 64 in Un Certain Regard – sezione in cui il regista appena due anni prima si era aggiudicato il primo premio per il precedente HaHaHa – The Day He Arrives rientra in un ciclo di visioni che fanno eco a quell’Eric Rohmer la cui grazia sfiora un quotidiano che racchiude la semplicità della vita. Giochi del destino, triangoli amorosi e strane casualità si dipanano nella pellicola riempiendo tutto lo spessore del quadro, con una presenza strabordante dei personaggi che vi abitano. I dialoghi sostituiscono l’azione in un flusso narrativo discontinuo, dove tempo e spazio interrompono il loro corso lineare per farsi epifanici risvolti mescolati ad un alienante atmosfera onirica. Come i veterani della Nouvelle Vague, Song Soo si addentra nelle pieghe esistenziali dei propri personaggi e li immortala mentre si aggirano spaesati o coscienti per stradine anonime, barricati dietro banconi carichi di bottiglie vuote o aggrappati alla carne di qualche figura femminile. La voce fuori campo, prevalentemente maschile, rimanda i pensieri di Sungjoon, un regista in preda ad un blocco creativo, in visita nella fredda Seoul per un po’ di svago. La visita ad un amore perduto e l’abbandono fugace ad una giovane, che assomiglia irrimediabilmente alla propria ex, fanno da contorno a disquisizioni filosofico-esistenziali sulla casualità degli eventi, stagliati su un fondo occasionale fatto di scambi quotidiani. Riflessioni mirate si alternano a domande personali e battute estemporanee che hanno tutta l’attrattiva e la bellezza del fortuito. Sembra sentir riecheggiare la poesia della banalità tanto cara a Rohmer, dove la musica di sottofondo si riduce fino all’essenziale, privilegiando rumori d’ambiente e vibrazioni di voci. La visita per la città gelida diventa occasione di riflessione. Il ritmo lento accompagna il rivelarsi di sensazioni recondite, che corrono parallele a pensieri sotterranei alla ricerca di uno spiraglio per il libero sfogo. Tutto appare venato di un’irrequietezza naturale, che soggiace al valore estremo di cui si impregnano le parole, vere custodi dell’anima, versione parlata di quello che dimora nel profondo.
Le lunghe riprese assecondano l’ambientazione realistica, dove tentazioni e desideri si dispiegano creando un tessuto di emozioni che si mescolano al vissuto di ogni figura che attraversa la pellicola. La macchina da presa corteggia silenziosa i personaggi, seguendone gesti e movimenti con aria sorniona. I più piccoli dettagli acquistano valore per l’urgenza istantanea del loro accadimento, dando risalto ad un presente congelato tra passato evocato e futuro incerto, avvalorato da una fotografia simbolica su un bianco e nero che si carica di malinconia. Emerge tutto il fattore emozionale di quanto aleggia sullo schermo, quella dimensione sfocata e irregolare propria dei ricordi e dei sogni. Dialoghi e azioni si ripetono confondendo uno spettatore alla vana ricerca di una chiave interpretativa. Ogni singolo evento è lasciato in balia del caso e si dispiega davanti all’obiettivo senza tagli, in tutta la sua compiutezza. Il montaggio non lineare, con zoom repentini che vogliono accentuare l’importanza che un gesto o una parola acquistano nell’immediatezza del momento, sottende ad una sceneggiatura che non segue neanche lo scheletro di un canovaccio.
Non ci sono storie individuabili, chiare e definite, è la vita stessa, nei suoi brani effimeri, che si fa narrazione. Quelli che solitamente vengono denotati come tempi morti acquistano ora tutta la valenza di un vuoto colmato. Unico elemento presente sono le figure umane su cui il regista indugia insistentemente, l’unico motivo di interesse. La delicatezza con cui Song Soo si avvicina ai propri soggetti rivela un’acuta sottigliezza di indagine antropologica che stenta, purtroppo, a raccogliere proseliti al di fuori di un pubblico di nicchia. Espressione di un cinema ricercato, The Day He Arrives si distingue per la fervida volontà di sfuggire al superficiale, delineando una pellicola che rifiuta ogni criterio e si svuota degli elementi diegetici. Col rischio, tuttavia, di non riuscire a mantenere fino in fondo quella carica emotiva e sensazionale di cui si vogliono pervadere le immagini.