Better Days
Vincitore assoluto agli Hong Kong Film Awards, ma oggetto di censura e forti discussioni in Cina, il film di Derek Tsang guarda criticamente alle forme di bullismo radicate nel sistema scolastico cinese, attraverso la lente di un affascinante romance giovanile.
«This was our playground. This used to be our playground». Chen Nian (Zhou Dongyu), professoressa, scrive queste frasi sulla lavagna e chiede ai suoi alunni la differenza tra i due tempi. Non ricevendo una risposta appropriata, replica che «used to be carries a sense of loss». Chen Nian fa ripetere più volte in coro le frasi agli studenti, ma durante questo gesto meccanico la sua attenzione ricade sul volto basso e silenzioso di una di loro. In quell’espressione, evidentemente, c’è un riflesso del passato, che subito materializza attraverso le immagini il playground di Chen Nian. Le coordinate nel tempo e nello spazio sono precise: città di Anqiao, nel 2011. Nian frequentava l’ultimo anno di liceo, nel clima asfissiante del periodo di preparazione ai Gaokao, esami d’accesso alle varie facoltà universitarie da cui dipendono le vite di milioni di studenti e delle loro famiglie. Per la sua unica amica il colpo di grazia arriva dal bullismo feroce di alcune ragazze, il cui peso la schiaccia fino a indurla al gesto estremo di gettarsi dall’ultimo piano della scuola. Tutti hanno uno smartphone in mano per immortalare quel momento estremamente curioso. Inorridita dai suoi compagni, Chen Nian fa per nascondere alla loro vista il corpo della compagna, posandovi sopra la propria giacca. Quel gesto dolente di empatia, assieme alla denuncia alla polizia dei bulli che avrebbero indotto la sua compagna a suicidarsi, non faranno che contrassegnarla come il nuovo target prediletto a dover subire le loro angherie.
Vincitore di ben otto premi (tra cui Miglior film e Miglior regia) alla 39esima edizione degli Hong Kong Film Awards, Better Days di Derek Tsang espone così, immediatamente, la sua attenzione a un tema spinoso e socialmente utile come quello del bullismo, e vi affianca una storia d’amore: Chen Nian è troppo debole per difendersi dagli attacchi del gruppo di arpie guidato dall’affascinante Wei Lai (Zhon Yu), così si fa proteggere da un ragazzaccio di strada, un affascinante diavolo solitario, Xiao Bei (Jackson Lee). Dagli svolgimenti narrativi propri del teen drama agli avvicendamenti polizieschi che presto affiancano un omicidio al suicidio, il regista cinese non plasma propriamente nulla di nuovo, anzi attinge a piene mani da un vasto repertorio di modelli e personaggi topici. Come il detective empatico che opera in maniera sconsiderata e personale rispondendo solo alla propria morale, o quello che vi si oppone tentando di assumere un atteggiamento più oggettivo. E c’è, ovviamente, la costruzione di una relazione sentimentale tra due personaggi agli antipodi, dove Chen Nian è timida e disciplinata, e guarda ai Gaokao come unica possibilità per sfuggire ai soprusi dei compagni, mentre Xiao Bei ha sempre la faccia piena di lividi, sopravvive in una baracca lurida – anch’essa da repertorio – e tira avanti tra risse e lavoretti per le gang locali.
Il merito però è proprio qui, nella giusta calibratura degli elementi, che suggerisce in egual misura la disposizione spettatoriale a godere tanto di un ottimo drama giovanile a tinte fosche, sovraccarico di tensioni e colpi di scena, quanto di un prodotto che riflette sui problemi di sensibilizzazione sullo Stato cinese. Salta in particolare all’occhio la cura nella rappresentazione visiva dell’edificio scolastico, granitico e quadrato, quasi una riproduzione del sistema della microfisica del potere foucoultiana: un dispositivo che opera un controllo verticale, collaudato per produrre in serie cittadini da inserire nella macchina statale. Lo descrivono le torri di libri impilati l’uno sull’altro sui banchi, a sommergere letteralmente gli studenti, e poi i maxischermi coi countdown ai Gaokao e i motti sul rispetto della disciplina e sull’unico obiettivo da mettere a fuoco, il successo accademico. La competizione è feroce, sfibra i corpi e degenera in forme di bullismo smodato a danno dei più deboli, si esaspera in abusi violenti di gruppo. Ed è questo passaggio che produce lo scarto, il cambio di passo dalla cappa di tensioni che governa l’ambiente scolastico, al precipitare vorticoso nel dramma notturno. La fotografia lo racconta con precisione e gusto estetico. La notte rovescia il pallore diurno della prigione scolastica ed effonde luce calda sul volto di Chen Nian, la stilizza nel buio in cui hanno luogo i gesti d’amore con Xiao Bei e carica di glamour le sequenze sovraeccitate delle scorribande e degli abusi di gruppo di cui Chen Nian è vittima.
Better Days non è un teen romance adornato da una decisa riflessione sulle storture del sistema scolastico cinese, né un film di denuncia che si nutre al contrario del genere adolescenziale. Siamo piuttosto davanti a un’opera solida, che smussa e collauda a dovere elementi divergenti organizzandoli su un’impalcatura sempre in equilibrio, riuscendo così ad adombrare certi eccessi estetizzanti in cui si avverte lo sfoggio della bella immagine e la ricerca insistita del glamour (viene in mente, in particolare, la scena molto teatrale dell’interrogatorio finale ai due protagonisti, nella stanza buia del commissariato). L’opera di Tsang avrebbe dovuto figurare tra i film presentati alla Berlinale dello scorso anno. Tuttavia, a una settimana circa dal suo esordio, tutte le proiezioni del film sono state cancellate, e nessuna giustificazione addotta. L’ipotesi più credibile, ovviamente, è che il governo cinese abbia voluto porre il proprio veto alla sua diffusione. Nonostante ulteriori rinvii e complicazioni che hanno rischiato di comprometterne del tutto le fortune, Better Days è stato infine destinato all’International Film Festival & Awards di Macao, dove ha folgorato la critica e ha incontrato infine l’entusiasmo del grande pubblico, come pure dimostra il gran successo al box office. Un’opera che, dunque, ha catalizzato enormi attenzioni in patria, tra apprensioni e fascino (e pure qualche livore), suggerendo in definitiva la portata del suo impatto sociale, la trasmissione efficace delle sue preoccupazioni, e una qualche curiosità da rivolgere al suo autore, appena al suo secondo lungometraggio.
«Used to be carries a sense of loss» ripete ancora Chen Nian, alla fine, e di riflesso un film che tenta di smascherare un universo intero di abusi, di stanarlo e reprimerlo, ovviamente grazie alla lente immersiva di un cinema sempre più affascinante qual è quello cinese.