Devils on the Doorstep

Jiang Wen mette in scena l’ottuso teatrino della guerra e nega alle radici l’epica eroica cinese ed universale

Devils on the Doorstep (Guizi lai le) è un’opera difficile da dimenticare. Il suo ruolo nel percorso di svecchiamento del cinema cinese di finzione degli ultimi decenni è stato importantissimo e difficile da sottostimare. Volendo ripercorrere in pochi, fugaci tratti i grandi film che hanno portato alla modernità la settima arte della Repubblica Popolare (tralasciando il complesso pianeta Hong Kong), i film seminali sono pochi e definitivi: Yellow Earth (Huang tudi), Sorgo Rosso (Hong Gaoliang), Suzhou River (Suzhou He), Platform (Zhan tai) e Devils on the Doorstep sono i cinque, possibili pilastri di un cinema di rottura e rinnovamento.

Film diversi e radici diverse per un cinema che, rotti gli argini della Rivoluzione Culturale, ha ricominciato ad interrogare il proprio passato e intonare un canto di identità e riappropriazione di sé. Un tratto che i cinque film hanno in comune è la rinuncia all’ideologia dell’identità intesa come oggetto statico, monumento e dogma di tradizione da difendere e celebrare. Yellow Earth, il più radicale e rivoluzionario per la sua epoca (era il 1984), rompeva la razionalità rivoluzionaria e faceva scontrare il feticcio identitario del cinese Han con la vitalità delle tradizioni orali e delle minoranze etniche del subcontinente cinese. Devils on the Doorstep, al contrario, affronta un altro “monumento” nell’architettura dell’identità cinese come è stata costruita e politicamente definita nell’ultimo secolo: la resistenza contro il Giappone e il patriottismo nazionalista.

Il film riesce nell’intento di mostrare il volto ridicolo e buffonesco della guerra, oltre a quello tragico che ben conosciamo. La storia di Ma Dasan, uomo qualunque costretto a proteggere due prigionieri di guerra, un soldato giapponese e il suo interprete cinese collaborazionista, è una delle voci della storia di un villaggio che cerca di sopravvivere all’occupazione giapponese nel contesto della seconda guerra mondiale. I due prigionieri di guerra costituiscono materia scottante per il villaggio: dati in custodia da un uomo misterioso (presumibilmente un guerrigliero della resistenza cinese) mai più tornato a reclamarli, rappresentano un pericolo per l’intero villaggio, che cercherà di liberarsene. Ma Dasan diventa, suo malgrado, l’uomo sul cui capo ricadranno tutti gli oneri della situazione.

Ma Dasan, interpretato dallo stesso regista Jiang Wen (e che gli occidentali di Cannes conoscevano già per il suo ruolo di protagonista in Sorgo Rosso), è uno sguardo nomade che muta punto di vista nel corso della visione. Sperimentando l’esclusione e l’inanità della situazione in cui si trova, del suo intero mondo, ne diventa infine il testimone, il buffonesco testimone. Jiang è uno dei pochi attori capaci di rappresentare personaggi sanguigni, animaleschi eppure vicini allo spettatore, che se ne identifica facilmente. Se il gambetto del casting non avesse funzionato, il progressivo distacco tra Ma Dasan e il suo mondo sempre più disumano non avrebbe avuto la stessa potenza emotiva e narrativa; perché non sono umane le ridicole marce militari dei giapponesi che da anni occupano il territorio del paese. Non è umano l’opportunismo e la disposizione al compromesso del capovillaggio e degli abitanti. Qualsiasi tipo di eroismo muore sul nascere: quello che vediamo è l’uomo ridotto allo stato grottesco dal velo della guerra – maledizione che nessuno ha risparmiato, carnefici e vittime.

Inutile sottolineare come questo film sia stato ostracizzato in patria quanto amato in Occidente (vinse il Grand Prix della giuria a Cannes 2000). A Jiang Wen è stato impedito di fare film per due anni, ma la sua carriera non è finita: i suoi ultimi lavori sono stati grandiosi successi commerciali. Certo, nessuna delle sue opere successive ha eguagliato Devils o ha osato parlare così esplicitamente di politica, ma il nucleo pulsante della sua arte resta sempre l’uomo e l’identità cinese contemporanea. Un film di genere apparentemente innocuo come Let the Bullets Fly (Rang zidan fei) di che cosa parla, se non dell’uomo cinese e di quelle che Jiang percepisce come le sue debolezze millenarie, i suoi demoni?

Come molti altri registi – Zhang Yuan, Jia Zhangke, l’ormai compromesso Zhang Yimou -, anche Jiang Wen ha scelto di parlare a un grande pubblico. Ognuno di essi ha adottato strategie di riposizionamento diverse. Per Jiang Wen la transizione è risultata relativamente meno difficile: Devils on the Doorstep era già, in filigrana, un grande dramma popolare. Grottesco, e non sempre facile, ma in quanto dramma della guerra non poteva che parlare al passato di tutti. Saettando agilmente dal registro dell’elegia a quello dell’invettiva, è un rarissimo esempio di cinema che sa disinnescare il potere seduttivo della rappresentazione spettacolare della guerra; con le fattezze distorte, le prassi meschine, i giochi di potere e il bilancino degli opportunismi, la guerra si fa specchio deformante dell’antropologico. L’unico momento di lucidità, nel finale, è incarnato dalla testa di Ma Dasan, ormai distaccata dal corpo: visione esterna, come di spettatore. Ormai distaccato dal teatrino delle umane genti, Ma Dasan può finalmente distinguere i veri colori del reale e concedersi un’ultima risata.

Autore: Alessandro Gaudiano
Pubblicato il 03/11/2014

Articoli correlati

Ultimi della categoria