Let the Bullets Fly

Anche se da un paio di anni non è più il continente con il maggior numero di economie in crescita (dati McKinsey alla mano), l’Asia rimane comunque un palcoscenico privilegiato per comprendere dinamiche centrali per l’attuale assetto globale, compreso il futuro del cinema. E tra questi paesi chi se non la Cina può vantare il ruolo geografico e socio-culturale necessario per rappresentare e indirizzare con più forza tale peso. Economia politica a parte, la Cina è oggi il terzo mercato nazionale al mondo in quanto a biglietti venduti; un paese che l’anno scorso godeva di un tasso di crescita demografica del 5,84%, con 1 miliardo e 380 milioni di abitanti, forte di un progresso che sta investendo tutti gli aspetti della società e in primis quelli industriali – tra i quali, appunto, il cinema. Nel 2000 i film cinesi prodotti annualmente sono stati 80, nel 2010 la cifra è salita all’impressionante numero di 526, un incremento che ha condotto la Cina dritta al terzo posto di produttrice cinematografica mondiale, sotto soltanto ai colossi di Hollywood e Bollywood. Se nel 2010 il box office era salito in un anno del 64%, toccando quota 10.2 miliardi di RMB, oggi la cifra annuale supera i 13 miliardi, di cui il 56% incassati da prodotti nazionali.

Dal punto di vista industriale la crescita cinematografica cinese è quindi formidabile, ad oggi senza rivali nel mondo, ma il discorso può essere traslato ad una dimensione artistica? Purtroppo no, perché se anche l’esplosione produttiva è senza dubbio una condizione necessaria al proliferare di film di qualità, essa non ne è allo stesso tempo sufficiente. Il mercato cinematografico cinese è oggi, di fatto, estremamente inflazionato, forte dell’affermazione economica di pochi film – commedie demenziali, kolossal wuxiapan o polizieschi d’arti marziali – ma francamente scarso di novità foriere di un avanzamento artistico o culturale di buon livello. Gli stilemi narrativi sono sempre più abusati, i caratteri sempre più piatti ed eccessivi, mentre ciò che si insegue è soltanto l’esagerazione e il superamento dei precedenti confini. Tra i soggetti più frequenti troviamo vicende amorose, sempre più o meno demenziali, che hanno come protagonisti i nuovi ricchi, borghesi metropolitani arricchiti all’eccesso che rappresentano solo una minima parte del paese, pur condizionandone enormemente l’auto-rappresentazione (nell’ultimo anno gli acquisti di prodotti di lusso sono aumentati del 28%).

In questo panorama sfrenato e al contempo arido, il fenomeno più interessante dal punto di vista cinefilo – e gravido di ripercussioni a livello internazionale, del resto se ne vedono già gli effetti in Corea del Sud – è quello della prassi ricombinatoria dei generi hollywoodiani, ormai mondialmente riconosciuti e assimilabili. Se un meccanismo di questo tipo ha interessato l’industria di Hong Kong di fine anni ’80 – qualificandone di lì in poi l’identità artistica e commerciale –, un simile fenomeno si sta presentando da alcuni anni anche in Cina, con le dovute differenze; se infatti la vecchia colonia inglese ha avuto la forza, attraverso il talento e la passione cinefila di alcuni autori, di divenire il nuovo polo mondiale della produzione noir, la Cina invece, sospinta da urgenze principalmente produttive, schiera i propri spazi geografici – che solo lei, in tutto il Continente, può vantare di tale portata – per una riscoperta tutta postmoderna del western, ricombinato al pulp delle arti marziali e alla demenzialità delle tante commedie soft. Esempio pressoché perfetto – dal punto di vista chimico – di tale miscela è questo Let the Bullets Fly (del cruciale 2010), un film di medio budget divenuto il più grande incasso nazionale della storia del cinema cinese, battendo anche il kolossal drammatico Aftershock e arrivando alla sorprendente quota di 730 RMB. Diretto da Jiang Wen, attore e sceneggiatore cinese alla sua quarta regia, Let the Bullets Fly è oggi un vero e proprio cult, tant’è che già da tempo ormai si vocifera di un suo remake hollywoodiano, con forse lo stesso Wen in cabina di regia.

Ambientato nell’entroterra cinese degli anni 20, il film si apre con l’imboscata del bandito “Pocky” Zhang Mazi ad un treno privato; su di esso sta viaggiando il neo eletto Ma Bangde, che sta andando nella cittadina di Goose Town per insediarsi come nuovo governatore. Nell’attacco muoiono tutti gli uomini di scorta e Tang, il consulente del governatore; per questo un disperato Ma – per salvarsi da Pocky e riscattare la propria vita – si finge il consigliere defunto, offrendo la carica ora vacante di governatore al bandito e approfittando del fatto che nessuno sa che aspetto debba avere. Pocky si insidia così al potere con Ma come consulente, ma presto andrà ai ferri corti con il boss locale Master Huang, specie per la sua attitudine a non prelevare ingenti quantità di denaro dai poveri, ricorrendo principalmente alle casse dei cittadini più facoltosi. Da qui parte un intreccio di maschere e inganni reciproci che metterà in dubbio l’identità di ogni personaggio, fino a che, alla resa dei conti, lo scontro per il controllo della città si fa inevitabile.

Sorretto da estreme dosi di umorismo demenziale – rilanciato da una regia estremamente plastica e ammiccante e una fotografia coloratamente pop – Let the Bullets Fly si presenta come un caso cinematografico alquanto curioso; quel che si snoda sotto il nostro sguardo occidentale è infatti una pastiche sfrenata e grottesca tutto sommato estremamente modesta, leggermente verbosa ed estremamente irritante nella sua demenzialità ridondante. Pur incarnata da attori di tutto rispetto, la sciarada messa in atto è recitata da personaggi piatti e superficiali, macchiette prive di profondità della cui sorte lo spettatore, pur seguendoli, si disinteressa ampiamente. Si può cercare la componente pulp ma la si trova affondata in una pozza di macchiettismo; si intuisce un discorso di satira politica – che prende di mira la corruzione dilagante nelle provincie più collaterali della Cina – ma lo si intravede diluito all’acqua di rose in quello che vuole mantenersi come un film di spiccato umorismo nazionalpopolare al minimo comun denominatore.

A ben vedere l’unico motivo cinefilo per tornare su questo film combacia con la sua fondamentale rilevanza commerciale, e risiede nel suo essere paradigma di quell’atto ricombinante di cui abbiamo parlato. Let the Bullets Fly è veramente esemplare nel suo miscelare vecchie forme di pulp e western adattandole, attraverso l’umorismo demenziale e la macchietta, alle platee più vaste possibile. L’adesione al genere però è meramente di superficie, e se si vuole veramente respirare quella splendida aria di avventura anni ’20 – che a noi tanto ricorda le peripezie di Corto Maltese – consigliamo allora di dirottarsi sul sorprendente, quello si, Il buono, il matto, il cattivo, maestosa rielaborazione postmoderna in cui Kim Jee-woon conferma tutta la sua bravura registica e consapevolezza cinematografica.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 18/02/2015

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