Dheepan - Una nuova vita
Ovvero come la guerra abita Dheepan e Dheepan abita la guerra.
Quello di Audiard è – ed è sempre stato – un cinema ferocemente carnale.
Ancora una volta siamo di fronte a un cineasta che condensa, accumula, affastella tensioni narrative portandole al punto di massima trazione. Come un filo teso su cui si reggono, precari, rapporti umani, affetti e desideri di riconoscimento. Bisogna sentirsi vivi, pensare al presente, oscillare tra le voragini del mondo.
La forza del suo cinema non risiede tanto nei soggetti che racconta, ma nella visceralità della messa in scena, in quel senso di potenza che emerge da ogni stacco di montaggio. La sua è un’immagine che vibra, scuote, palpita, grondante com’è di tensione e violenza: la violenza emotiva di chi si ritrova costretto a combattere contro se stesso e i demoni della propria storia. L’autore è interessato all’energia vitale, dinamica e debordante dei suoi protagonisti, al sangue come ricettacolo esistenziale. Non stacca mai lo sguardo dalle sue figure, ansioso com’è di pedinarle, esplorarle, tanto che la macchina da presa diviene il loro cuore pulsante. La loro stessa vita. Intercettata una bestialità primigenia, Audiard la identifica subito col nostro atavico, irredimibile istinto di sopravvivenza. Allo stesso modo, il regista de Il Profeta, continua a essere tenacemente legato agli universi che racconta, al loro portato etico e morale: non è solo un abile costruttore di forme filmiche ma uno straordinario affabulatore che, nel sudore e nella carne, nella ruggine e nelle ossa, ritrova tutto il fascino del racconto filmico più classico. Dalle opere di Audiard affiora sempre un anomalo nitore narrativo, una trasparenza che non ha paura di farsi parabola: quando mette in scena una storia, il resto del mondo scompare e sussiste unicamente il microcosmo che racconta.
Non fa eccezione Dheepan, Palma d’Oro all’ultimo festival di Cannes, film a tre voci, quella di un padre, di una madre e di una figlia improvvisati. Il padre è paradigma stesso dell’antieroe secondo Audiard: egli è il sopravvissuto che non vuole cambiare il mondo ma brama ardentemente una tranquillità, una pace che non sono iscritte nel suo dna. Nell’esistenza precedente era una tigre tamil, soldato di un gruppo nazionalista che combatteva per l’indipendenza dello Sri Lanka. Lacerato dagli orrori della guerra civile che ha devastato il proprio paese, Dheepan fugge assieme a una donna e una bambina. Per facilitare il loro ingresso in Europa, i tre si fingono una famiglia, con tutti i problemi relazionali che questo comporta. Vengono inviati nella periferia parigina dove la situazione è mite e tranquilla solo in apparenza: tra loschi giri di armi e droga, scoppierà una vera e propria guerriglia urbana.
Sempre pronto a cambiare punto di vista, il film si focalizza sull’aggregazione di questa (non) famiglia, sulle innumerevoli difficoltà di comunicazione, sulle neoidentità che, da sole, potrebbero rendere possibile una nuova vita. La macchina da presa non può e non vuole staccarsi dai personaggi, cerca di essere in loro ancora prima che su di loro. Al regista non importa nulla della Francia vista dagli esuli, né del tema abusatissimo dell’immigrazione, gli interessano invece le relazioni umane, le distanze e i progressivi accostamenti dei suoi protagonisti. Personaggi in grado di fuggire dalle coordinate del genere, dai facili schematismi che potrebbero attutire la loro complessità.
Tutto Dheepan si focalizza sull’inveramento di una bugia, quella famigliare e, interessato com’è alla percezione alterata del mondo, allestisce una vera e propria fenomenologia della visione. Per Dheepan il delirio è sempre dietro l’angolo, come a rappresentare il momento inevitabile di un crollo. Tutta l’ultima parte del film assume i connotati dell’incubo allucinatorio che offusca lo sguardo del protagonista: dalla guerra civile alla guerriglia urbana, Dheepan sembra abitato, dominato, invasato dalla guerra. Quella violenza che si porta dentro (sebbene lui “sia un uomo buono”) guasta ogni visione, umilia ogni placido, sereno desiderio di quotidianità e, infine, trasforma il mondo intero in un impetuoso campo di battaglia dove farsi giustizia da soli.
Dheepan ritorna soldato e il suo gesto cieco e omicida lo porta verso una lenta, inevitabile deriva. Il mondo crolla sotto i suoi piedi, non rimane altro che la propria capacità di sussistenza. E’ come cadere in un letargo della ragione, un lungo sonno da cui sarà impossibile risvegliarsi. Ritorna un po’ alla mente la figura del reduce che porta la guerra perfino tra le mura domestiche (per un gioco di visioni recenti pensiamo subito a Man Down di Dito Montiel, in cui la guerra genera un mondo alternativo e malato dove il nemico è la propria stessa moglie). Il conflitto non è nello Sri Lanka, ma ci insegue dappertutto, cambiando aspetto, pelle e geografie, presentandosi ogni volta con un volto differente.
Nella periferia parigina la violenza assume forme più sottocutanee e silenziose, ma non per questo meno insidiose. Il giustiziere Dheepan crea linee di confine, scandisce la sua neutralità e, un momento dopo, si sente di nuovo in pericolo. I mobili cadono dal cielo, la gente spara per strada, tutto il mondo (il suo mondo) è di nuovo pronto a esplodere. Il tentativo forsennato di Dheepan di proteggere una famiglia che non vuole perdere di nuovo, si trasforma in una strenua difesa del proprio territorio: il soldato traccia linee di confine, ipotizza una nuova frontiera, cerca di salvare la propria casa.
Le due voci che lo circondano, la moglie Yalini e la piccola Illayaan, orfana di guerra, rimangono il suo unico contatto con la realtà. Eppure cercano in tutti i modi di sfuggirgli. Per loro sussiste ancora il gentile miraggio di un mondo differente. Forse una “nuova vita” può esistere ancora, come suggerisce il beffardo sottotitolo italiano, ma Dheepan è ormai in preda alle metastasi di un virus che lo ha già annientato.
Rimane il personaggio emblematico del vecchio silenzioso cui fa da badante Yalini. Egli è immobile, assente, lontano anni luce da tutto e tutti, come caduto in una catalessi quotidiana. Il suo sguardo perso, smarrito, proiettato verso un al di là sconosciuto, non è forse speculare a quello di Dheepan, giustiziere involontario di un mondo che ha smarrito la sua ragione?
Eppure, tra le dissolvenze emerge l’immagine di un elefante nella giungla, lo spirito guida della propria patria perduta, la rappresentazione visiva del dio Ghanesha. Gli dei tacciono, la voce della natura ormai è andata perduta. Ma Yalini, molto più forte di quanto potrebbe sembrare, continua imperterrita a pregare, credendo ancora che possano esistere uomini buoni.