Doppi amori
A ruota libera su "Doppio amore" di François Ozon e i riflessi del desiderio: Desplechin, Hitchcock, Lynch, Carax...
Guardi Doppio amore di François Ozon e cadi in uno di quei vortici dove solo il cinema più sfacciato può lasciarti sprofondare. Senza pudore, con gusto obbligato per il cattivo gusto. Quello di Ozon non è solo l’ennesimo racconto di doppi cinematografici, di gemelli di cronenberghiana memoria, non è solo il giochino citazionista in cui ritrovare Powell, Welles, Hitchcock, De Palma e Lynch come in un album di figurine; è un mirabile film di spudorati macguffin, un’operazione di transfert moltiplicata a livelli esponenziali (lo split screen di De Palma o gli specchi de La signora di Shangai non bastano più): la detection cede il passo alla riflessione sul dispositivo-cinema svelandone la sua messa in abisso, movimenti e contromovimenti, il suo statuto ontologicamente ossimorico e sovversivo.
Doppio amore si può leggere in tanti modi, a noi piace vederci un film sul cinema e sulla tecnologia, intesi sempre come doppio, protesi del desiderio. Assistiamo così al racconto lucido e spietato di come le immagini abbiano perso ogni centro epistemologico (ricordate il discorso sulla prospettiva pronunciato da un Amalric sull’orlo di una crisi di nervi ne I fantasmi d’Ismael?). Certo, direte voi, nulla di nuovo, Redacted ce lo diceva già più di dieci anni fa. Ma nella cornice del thrilling, nell’adesione superficiale a una narrazione che gioca a far acqua da tutte le parti, Ozon dice: l’immagine mente sempre, non possiamo più fidarci dei nostri occhi, forse l’unica verità è istintiva, genitale ed è la verità dell’erotismo, il solo tempo qualitativo allo stato puro. Una verità liquida e coitale introdotta dall’occhio della vagina (Bataille!): l’eros come motore immaginifico del mondo.
Il cinema oggi si spalanca a doppi infiniti, frantumati in mille pezzi di narrazioni scomposte (ed espanse): siamo sempre in Ready Player One o nel tempo mai presente de I fantasmi di Ismael (la domanda anche lì è: chi sta guardando? Chi è il fantasma? Sei tu o sono io? come si chiedeva Kristen Stewart nel fondamentale Personal Shopper di Assayas).
La nostra ricerca dell’originale fallisce di fronte a qualsiasi verità presupposta. Doppio amore, come Mulholland Drive e il cinema tutto di Lynch, completa e contraddice se stesso inquadratura dopo inquadratura (da una parte Dougie, dall’altra Bob, ma Cooper in fondo è in tutti e due e in nessuno dei due). Un film che, appena afferrato, diventa altro da sé, in continuo movimento. Un film che deve fornirne altri mille, comprimendo in un grembo digitale il thriller e la parodia, il tessuto dialogico e quello cinetico (i riflessi di Persona, magnifica ossessione bergmaniana che permea sia il film di Ozon sia quello Arnaud Desplechin).
Tutto è nella mente che intelaia la sua rete, tutto è nell’occhio che smaccatamente si fa vagina. E la vagina genera doppi, sempre. Nella figura del gemello cannibale, acme vampiresco del film, Ozon ci ricorda che non c’è più nessuna casa ma un regno di schermi (di nuovo Holy Motors: E se non ci fosse più nessuno a guardare?). Schermi sovrapponibili, ubiqui, sempre connessi come i cervelli portatili degli smartphone: tutto è doppio, perfino il sesso. Maschile e femminile si (con)fondono in una donna gatto dominante. Il punto è proprio l’identità, sciolta in un transfert chiamato cinema. Alla base di tutto, ancora una volta, il sesso: attrazione e repulsione di una donna che visse due volte (come la Carlotta di Desplechin o di Hitchcock), unica e plurima, squartata dalle escrescenze aliene di un cinema che ci ricorda, sempre, che siamo qualcun altro. Che ognuno di noi è due.