Frantz
Nel nuovo film di François Ozon, fingere è l'unico modo per sopravvivere alle macerie della guerra.
Nella primavera del 1919, in un ridente villaggio della campagna tedesca, la giovane vedova Anna si reca tutti i giorni sulla tomba dell’ex-fidanzato Frantz, da poco morto sul fronte occidentale. Un giorno si accorge, per caso, che la lapide viene visitata con frequenza anche da un altro uomo: Adrien, un reduce francese della Grande guerra, che sostiene di aver conosciuto Frantz, a Parigi, poco prima dello scoppio della guerra. Così, tra i due nasce un rapporto basato sul reciproco interesse nello scoprire qualcosa in più di Frantz e delle sue sorti. È questo il plot, semplice e decisamente misterioso, del sedicesimo film di François Ozon, presentato in concorso a Venezia 73 e distribuito in Italia a partire dal prossimo 22 settembre.
I primi motivi d’interesse per Frantz emergono già da una sommaria analisi dell’operazione produttiva. Il film, infatti, è girato da un regista francese, ma parlato quasi interamente in tedesco. Inoltre, le ambientazioni si spostano tra Germania e Francia, più precisamente tra un piccolo villaggio della campagna tedesca e la grande métropole Parigi, collegate da lunghi e affascinanti viaggi in treno. Infine, i due protagonisti principali, Anna e Adrien, parlano sia in tedesco che in francese, proprio a voler dimostrare un necessario abbattimento dei confini, così come ridefiniti dalla guerra, ma soprattutto dei pregiudizi e delle barriere linguistiche e culturali. Seguendo questi propositi, Frantz si manifesta da subito come un film apertamente pacifista, che mette in discussione i rispettivi pregiudizi ideologici anticipando le derive nazionaliste che attraverseranno l’Europa tra le due guerre.
Il progetto è quanto mai ambizioso, vista anche la necessità di confrontarsi non soltanto con la pièce teatrale di Maurice Rostand, da cui il film è tratto, ma soprattutto con il precedente adattamento cinematografico, Broken Lullaby, già girato da Ernst Lubitsch nel 1931. Ed è proprio da qui che riparte Ozon: se, infatti, quello di Lubitsch è un film di un tedesco che assume il punto di vista dei francesi, Ozon decide di adottare deliberatamente l’ottica dei tedeschi, di chi ha perso la guerra, attraverso l’immedesimazione quasi totale nello sguardo depresso e melanconico di Anna, che a causa della guerra ha perso ambizioni e speranze nel futuro.
Raccontando una storia per lo più ambientata nella campagna tedesca tra le due guerre, un altro termine di paragone non poteva non essere il canone estetico e narrativo già tracciato da Edgar Reitz con la sua epopea monumentale Heimat. Lo stesso utilizzo della fotografia in bianco e nero, con squarci di colore provenienti quasi tutti dal paesaggio contadino (come quello straniane e avvolgente della scena iniziale), sembra un consapevole omaggio al regista tedesco. Così come Reitz decideva di agire attivamente sull’immaginario storico degli spettatori, facendo riferimento indirettamente alla fotografia utilizzata dai materiali di archivio provenienti da quel periodo, gli sprazzi colorati servono soprattutto a fornire un’apertura e un respiro all’angustia della guerra e della sua eredità. Grazie al colore, potremmo dire, la vita ricomincia laddove si era fermata, prendendo anche le forme di un’immaginazione pura del passato che presto si rivelerà fallace.
Il ritorno del quadro Le Suicidé di Édouard Manet, mostratoci prima in bianco e nero e poi nella sua versione originale, oltre a richiamare una cifra ricorrente in molti dei film visti in questi giorni al festival – ovvero quella dell’intersezione tra arte (dipinti), opere teatrali e adattamenti cinematografici – rappresenta proprio quel trauma del ricordo della guerra con cui Paul Simmon torna dal fronte della Grande Guerra, all’inizio della prima stagione di Heimat, e non riesce a raccontare ai suoi familiari l’esperienza traumatica appena vissuta. Quel suicidio che vediamo rappresentato nel dipinto è lo stesso che tenteranno sia Adrien che Anna, e che in qualche modo li accomuna, assieme all’insostenibile ricordo di Frantz, come unico modo possibile per uscire dalle macerie della guerra. I primissimi piani con cui Ozon indugia sul volto di Anna sembrano andare esattamente in questa direzione: la volontà, cioè, di scavare in un animo malinconico, alla ricerca di una via d’uscita dal tormento e di un perdono apparentemente impossibile.
Sarà soltanto attraverso le medesime menzogne di cui lei stessa era stata vittima che Anna riuscirà a sopravvivere al trauma. «A cosa servirebbe raccontare la verità?», le chiede retoricamente nel confessionale il prete a cui domanda conforto. Probabilmente, essere sinceri complicherebbe, per lei e per i genitori di Frantz, l’uscita da quel tunnel che è l’eredità della guerra. E allora, piuttosto che conoscere la spietatezza della verità, tanto vale credere a una bugia che allevia momentaneamente il dolore, nella speranza che il tempo metterà le cose al loro posto. In questa ottica, il cinema, l’arte e i loro apparati finzionali, come quello del colore, diventano metaforicamente l’unico antidoto alla difficile eredità della guerra. È una falsa speranza nel futuro che il film di Ozon racchiude e alimenta allo stesso tempo, e che permette allo spettatore, soffermandosi magneticamente sugli occhi di Anna di fronte a Le Suicidé (stavolta a colori), di dimenticare le nuove ondate di violenza che sconvolgeranno ancora l’Europa.