Dossier Bertrand Bonello / 2 - Tiresia
Bonello riscrive Tiresia e ne fa uomo ma anche donna, sintesi di generi, di vero e di falso.
La Settima di Beethoven e il Mito così come Bonello lo rappresenta in incipit: magmatico, ribollente, incontrollabile e oscuro. Lava che viene dalle viscere, che cola e forgia calchi, simulacri del reale, racconti che si sciolgono al crogiolo del tempo eppure restano materia vivente. Si narra di Tiresia, in questo caso, l’indovino cieco, che non vede quel che lo circonda ma vede oltre, vede prima. Tiresia che qui è uomo ma anche donna, sintesi di generi, di vero e di falso (l’”originale è volgare”, “la copia è perfetta” fa dire il regista al protagonista maschile, l’assassino, l’ossessivo, il vizioso e, al medesimo tempo, il prete).
La riscrittura del mito di Bonello agisce sulle soglie sensoriali, sul confine violato, sullo strazio del corpo (degli occhi), in uno spazio e in un tempo svuotato, “defunzionalizzato”. È un film del desiderio e della perdita, del guardare, spiare; film di occhi aperti e chiusi, di attori-personaggi che sfuggono al loro statuto, diventano altro, demarcano e infiltrano l’irrealtà della tragedia. Tiresia è una zona liminale, lo scarto profondo tra consunzione dello schema, della norma narrativa e linguaggio, tra reale e astratto. Il terzo film di Bonello è respingente e suadente, preferisce l’alterità – forse anche programmatica, estremizzata – a ogni tenuta connettiva, a ogni manipolazione poetica. Non è una diagnosi della condizione dell’umano, così come voleva essere il Mito: è piuttosto un impossibile gesto conoscitivo, la rappresentazione dell’assenza nonostante i corpi.
Figura della mitologia greca, che Ulisse nell’Odissea incontra negli Inferi e che fa da contrappunto a tutto il ciclo tebano, qui da principio Tiresia canta in un bosco notturno, in un luogo lunare, come a deritualizzarlo, a sottrargli il senso della sua realtà, della totalità. È il posto delle puttane, anzi delle prostitute transessuali, come lei che è arrivata dal Brasile, è lo spazio ai bordi. Viene rapita da un uomo, si chiama Terranova, che la imprigiona. Dormono insieme, con le mani di Tiresia legate al letto, sfiorano l’amore. Lui la guarda mentre deterge il suo corpo nudo, le sue forme femminili, il suo pene. Il tempo passa e Tiresia ha bisogno di ormoni, sta cambiando, sta tornando lentamente ciò che era, alle sue sembianze maschili. Terranova, allora, l’acceca con un paio di forbici e, in fin di vita, l’abbandona in un bosco, di notte. A salvarla, l’indomani, abitante di un piccolo paese, è una ragazza di 17 anni, che non parla ma bacia i ragazzi lontano da occhi indiscreti, è Anna (Célia Catalifo), che la porta a casa sua e, con l’aiuto di suo padre (Lou Castel) comincia a prendersi cura di lei. Tiresia ora è quella di prima e insieme non lo è più, ha un altro aspetto, un’altra vita, non è più l’attrice Clara Choveaux ma l’attore Thiago Telès, non vede più ma ha doti oracolari, un dono che deve donare. Laurent Lucas era Terranova, ora è François, un prete che tornerà a essere strumento, una volta ancora, del suo destino tragico.
Bonello divide e insieme interseca i piani, chi guarda e chi è guardato, chi vede e chi prevede, mette a nudo con sapienza (è una sua caratteristica) il dispositivo filmico, mette in figura originali e copie, ossessioni e liberazioni, effrazioni e sospensioni, modula il film sui suoi attori che più che personaggi, sono “intervalli”. Ecco, Tiresia è una riscrittura e non lo è, perché non riformula alcunché, non riattualizza il senso del tragico , al massimo lo sfiora, è una sorta di performance ipnotica del tragico: è l’accadimento impossibile, imprendibile del suo cinema.