Dossier Bertrand Bonello / 3 - L'Apollonide – Souvenirs de la maison close

Bonello entra in un bordello parigino di fine '800 per produrre una riflessione che ribalta il potere dello sguardo maschile traducendolo in miopia

Maison close, casa chiusa: un termine che descrive un atto di contenimento verso qualcosa che va represso e liberato solo entro mura compiacenti, al riparo della luce del sole. Casa chiusa significa sesso, perversione slegata dal giudizio morale, un frammento di libertà che rimbalzando contro le pareti in cui si esprime diviene gabbia. Con L’Apollonide – Souvenirs de la maison close Bertrand Bonello rivela la contraddizione insita nell’esistenza di alcune donne entrate in un bordello parigino alla fine del ’800 per sfuggire alla schiavitù di una vita fatta di stenti e lavori usuranti. Una tentata fuga che si traduce in una nuova condizione subalterna, dove i debiti e il bisogno di compiacere i clienti distruggono la possibilità di un’indipendenza economica e e di relazioni sentimentali autentiche. Sia le prostitute che i clienti entrano nella maison per poter essere se stessi oltre le convenzioni sociali, finendo invece per scontrarsi con la menzogna: le ragazze mentono agli uomini deridendoli alle loro spalle, mentre questi ultimi le illudono di amarle per poi abbandonarle nel momento del bisogno.

Essere esposte allo sguardo e al tocco altrui è il nodo principale del mestiere di prostituta, e Bonello lo ripropone secondo una chiave che conferma il suo voler fare un cinema più interessato all’osservazione che al racconto ordinario. Casa chiusa significa una casa piena di stanze, abitata da donne colte da sole o in compagnia, pertanto il regista le insegue insieme o una o una, nelle loro differenti tipologie. C’è l’italiana, l’ebrea, la fanciulla quindicenne, l’araba, la tenutaria del bordello o chi, entrata a 16 anni, a 28 ancora non è riuscita a uscirne. In L’Apollonide - Souvenirs de la maison close tutte compongono un collage organico che prescinde dalla coerenza narrativa, perché Bonello preferisce spaziare avanti e indietro, o riproporre le stesse sequenze in tempi diversi della storia, fino a suddividere l’inquadratura in sotto-riquadri. Mentre la vita nel bordello viene descritta nei dettagli più minuziosi – la preparazione delle ragazze, l’arrivo dei clienti, il pagamento, la gestione dei conti - le storie personali di ognuno dei personaggi sono tratteggiate solo in maniera superficiale: non ci è dato sapere chi erano prima né cosa faranno dopo che la padrona non potrà più far fronte, come le sue lavoranti, ai debiti crescenti. Gli uomini d’altra parte appaiono nel film come pure comparse sfuggite a uno sguardo più attento, forse proprio in virtù del ruolo maschile di chi può esercitare il potere guardando e agendo, invece di essere visto e toccato.

Se è forse possibile ritrovare una sorta di protagonista è nella figura di Madeleine – un nome, che pensando ai Vangeli, pare profetico – la quale subisce completamente sulla propria persona il destino della prostituta che vive della propria passività. Prima, accettando di essere legata da un cliente abituale per poi esserne sfregiata senza potersi difendere, ne patisce tutta la violenza; poi, una volta sfigurata, eccita la curiosità altrui solo per il fatto stesso di sottoporsi allo sguardo di spettatori avidi di nutrire i propri occhi delle sue cicatrici nello stesso modo in cui si cibavano del suo corpo a forza di amplessi comprati.

Eppure Bonello sembra mettere in discussione questo sguardo del potere, attribuendogli una miopia latente, poiché chi guarda – i clienti – non vede la realtà, ma solo il riflesso delle proprie fantasie meccanicamente messe in scena. Le donne del film interpretano bambole, geishe, vergini: il sesso femminile viene guardato in virtù di un falso atto di conoscenza che altro non è che un concetto irreale di femminilità. Le uniche vere relazioni espresse nella maison sono quelle fra le stesse abitanti che dormono, piangono e ridono insieme. L’intento del regista è duplice nel cogliere sia l’oggettivo stato delle prostitute, sia l’illusione visiva che esse creano appositamente per i clienti, così che l’occhiata suadente è seguita dalla smorfia annoiata, in una molteplicità di visioni che si stratificano fino a colmare il film di sguardi mancati, fantasiosi, neutrali, onirici, reali, che agiscono contemporaneamente. La stessa casa chiusa è in realtà la metafora di una relazione visiva conflittuale ove gli interlocutori si scrutano con gli occhi diretti però in altri pensieri. Il finale con Clothilde che esce da una macchina su una squallida autostrada dei giorni d’oggi, sullo sfondo le colleghe che attendono sul marciapiede, il viso spento diretto verso il vuoto, concretizza l’assurdità di un contatto tanto intimo quanto estraneo, traducendola in un’idea di cinema che eleva la miopia visiva al medesimo livello della capacità di saper davvero guardare il mondo.

Autore: Veronica Vituzzi
Pubblicato il 16/06/2016

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