Dossier Denis Villeneuve / 4 - Polytechnique
Un film che è un punto di svolta e sperimentazione, per affrontare un tema complesso e un’iconografia ingombrante come quella americana, e confermare la volontà a trovare una “terza via” del cinema.
Polytechnique, terzo film di Denis Villeneuve, è un’opera sfuggente e refrattaria a didascalie e facili vie d’uscita. Come ogni film del regista canadese, Polytechnique è un oggetto cinematografico in equilibrio tra più tensioni: opera realista ed esperimento visivo, teorema logico e cineteatro dell’assurdo, il film mantiene e preserva una ambigua, affascinante, complessità che lo pone in una posizione a cavallo tra autorialità e cinema industriale, tra Europa e Hollywood.
All’École Polytechnique di Montreal è andata in scena una tragedia a noi molto famigliare. Il 6 dicembre 1989, uno studente misogino ed ossessionato dalle armi, Marc Lépine (interpretato da Maxim Gaudette), uccide quattordici ragazze del liceo e si toglie la vita. Maschilismo degenerato, insicurezza e ferocia si schiantano sulla scuola come forze della natura, divinità capricciose di un Olimpo perverso. A farne le spese saranno le vittime e i sopravvissuti. In particolare, Polytechnique segue le storie di un ragazzo e una ragazza, il loro sguardo perso a fronte della violenza che si insinua nella scuola come un ospite inatteso e minaccioso.
Fin dalle prime inquadrature, è chiarissima la scelta del regista di evitare approcci cronachistici o “estetiche del reale”. Diviso in tre sezioni, Polytechnique racconta la mattina che precede la tragedia, il durante e il dopo. Ma non si tratta di compartimenti stagni: gli sguardi dei tre personaggi si compenetrano, le corse e le ellissi temporali sfilacciano la coerenza del racconto e del trauma. Le prospettive chiare e comprensive di un approccio documentario o di uno stilismo estremo sfumano in uno sguardo cinematografico gassoso e disincarnato. Il cineocchio di Villeneuve galleggia e scorre, cerca di ricostruire un punto di vista – invano. La camera di Villeneuve non tallona, non insegue in lunghe semisoggettive: è un testimone o un fantasma, vaga tra corridoi e classi alla ricerca di fughe o possibili comprensioni, possibili logiche in grado di ridurre l’accaduto ad uno schema facile, una sentenza, un titolo di giornale. La sostanza stessa dell’esperienza traumatica si fa, qui, elemento costituente del racconto.
Siamo lontani dall’estetica di Elephant, l’opera di Gus Van Sant a cui è impossibile non pensare per affinità tematica. E siamo ancora più lontani da Bowling a Columbine ed alla sua discussa tesi che il Canada sia un paradiso dove le armi servono solo a scacciare gli orsi, o quasi. In Polytechnique non ci sono tesi e proclami, solo avvicinamenti. Non c’è niente di logico e chiaro, a parte l’algida immagine in bianco e nero o il commento sonoro non meno freddo, ovattato, distante; nient’altro che belletti e maschere per dare ordine a un sistema caotico e imprevedibile. Dietro l’immagine e ai bordi dell’atto violento, l’irrazionale, l’ossessione, il desiderio guizzano e ribollono. I corpi cadono, il sangue sgorga, l’oscena fenomenologia del corpo senza vita si agita sullo schermo bianco. Siamo nel teatro cubista, nell’assurdo alla Samuel Beckett, nell’astrazione necessaria a porre degli argini all’osceno e all’irreparabile.
I corpi e le vite dei due studenti a cui Polytechnique dedica le ultime due sezioni sono l’eccezione a questa regola e incarnano la normalità al di fuori del sistema di regole e pulsioni dell’episodio violento. Lo spettatore conosce pochi dettagli delle loro vite, ma tanto basta per sentirle schiantare quando la violenza le colpisce ciecamente. La giovane studentessa, in particolare, è il personaggio più riuscito e potente: donna e lavoratrice che vuole difendere la propria dignità e resistere al maschilismo, rappresenta il prototipo della donna che il killer vorrebbe far scomparire dalla Storia. Il suo percorso di vita, a distanza di anni dalla strage, traccia una parabola dell’elaborazione del dolore e della perdita che esplicita, se mai ce ne fosse bisogno, l’umanesimo coerente alla base dell’opera.
Polytechnique non cerca moralismi, né facili catarsi per lo spettatore e consumatore. L’inquietudine e il senso di una perdita irreparabile si trascinano oltre i titoli di coda; oltre lo schermo nero, l’incubo non è mai dissipato. Se questo film fosse un horror, sarebbe assai affine a Nightmare, o Babadook, o It Follows.
La violenza è assurda e incomprensibile al cinema ed al suo “occhio del Novecento”, che pure è nato e cresciuto in un secolo di sangue e ferocia senza limiti. In questa fatica di Sisifo, costruire argini provvisori ma necessari, giace il senso del cinema in quanto etica e igiene dell’immaginario. Questo sembra il cuore pulsante di Polytechnique e del cinema-ibrido di Denis Villeneuve.