Dossier Denis Villeneuve / 6 - Prisoners
Un thriller anti-americano costruito con ferocia geometrica e un uso massiccio di sottotesti biblici, tra entertainment e (scarsa) problematicità
Quello del franco-canadese Denis Villeneuve è un cinema che non dà mai l’idea di volersi appoggiare a un sistema di pensiero debole, a una messa in scena dai confini labili e non definiti, in cui allo spettatore sia lasciata la possibilità di orientarsi attraverso una costruzione dalle maglie larghe. Prisoners, primo film del regista a poter vantare una produzione americana, non fa assolutamente eccezione, perché Villeneuve ancora una volta muove premesse feroci e non accomodanti e se possibile radicalizza ulteriormente il proprio stile, fin dagli esordi ruvido e tagliente, per applicarlo a una storia di rapimenti di bambini e famiglie in frantumi nell’America contemporanea. Tradendo così un’evidente voglia di porre in discussione l’utopia a stelle e strisce e di metterne a dura prova i buonismi risaputi e gli stereotipi, attraverso una rappresentazione della provincia che più buia e disperata di così sarebbe davvero difficile da immaginare.
La vicenda vede protagonista la famiglia Dover, che conduce una vita ordinaria e senza sussulti di nessun tipo in una piccola città nello stato della Pennsylvania, senza agi ma con un affiatamento che pare palpabile. Tuttavia, nel bel mezzo dei festeggiamenti del Giorno del ringraziamento (quanto di più americano, va da sé), la figlia più piccola dei coniugi Dover scompare misteriosamente e senza lasciare traccia insieme ad un altra bambina, Joy, figlia di una coppia di colore amica dei Dover. Un terremoto di proporzioni devastanti, che farà emergere scheletri nell’armadio e rivelerà la vera natura di molte delle persone coinvolte nel tragico accadimento: in particolare di Keller Dover, interpretato da uno spietato e respingente Hugh Jackman, che si metterà alla ricerca del potenziale aguzzino della piccola senza badare ad implicazioni morali di nessun tipo, alle possibili prove o alla realtà dei fatti, perseguendo esclusivamente la logica dell’annullamento fisico e psicologico del proprio sospettato. Un giustiziere da film horror, quasi: il personaggio di Jackman pare incarnare, sulla propria stessa pelle e sul proprio aspetto corpulento, un fato ingombrante che si abbatte impietoso e cieco su un microcosmo lontano da qualsiasi forma di misericordia e di perdono, amplificando così la prospettiva etica del regista sul proprio racconto attraverso la mediazione di un personaggio dal valore esplicitamente metaforico (e inevitabilmente invasivo all’interno del racconto).
Il male in agguato, sembra dirci Villeneuve, è pronto a silenziare la coscienza delle anime più disprezzabili, elargendo castighi ai puri di cuore ma segnalando, al contempo, quanti sono lupi tra gli agnelli, padri padroni celati dietro l’apparenza ordinata e remissiva di una provincia grigia come tante altre. E’ il prezzo da pagare per approdare a una forma di verità rivelata, che si fa largo in mezzo all’ipocrisia che tutto appiattisce e livella. Il paradigma cui il regista sembra voler giungere, alternando i punti di vista delle famiglie coinvolte a quello di un detective solitario e nevrotico (un sublime Jake Gyllenhaal, icona e corpo attoriale sempre più simbolo della contemporaneità e dei suoi traumi), sembra l’esatto rovesciamento dei versi di un brano dei Radiohead, Codex, che arriva puntuale sui titoli di coda: No one gets hurt / You’ve done nothing wrong (…) The water’s clear and innocent. Si feriscono e si scottano infatti più o meno tutti, in Prisoners, in molti fanno qualcosa di sbagliato, credono di farlo (i dubbi morali laceranti del detective) o finiscono invischiati nelle conseguenze delle cattive azioni altrui. Il rovesciamento di un modello condiviso di buona condotta, causato sottobanco dall’insorgere della tragedia che mette sotto scacco il film, rende insomma le acque torbide e ingarbugliate, tutt’altro che chiare e innocenti, avallando l’indistinta compresenza di vittime e colpevoli. Nello stesso luogo, spesso nella stessa inquadratura. A nostra insaputa.
Tutti sono dunque prigionieri di tutti, parafrasando un romanzo di Giorgio Scerbanenco, all’interno di questo thriller geometrico, torvo e a orologeria, che si ferma sempre un attimo prima della manipolazione della violenza a fini spettacolari, ma non per questo si sottrae dall’insinuare più di un dubbio nello spettatore meno disposto a sottoporsi passivamente alla costruzione psicologica di Villeneuve. Simile a una seduta sadomasochistica dai fin troppo facili connotati anti-americani, adottati oltretutto da uno straniero che lavora in maniera anti-accademica su uno dei generi americani per eccellenza del cinema contemporaneo, il thriller, amplificandone a dismisura durata (in tal senso lo Zodiac di David Fincher resta un’altra cosa) ma non respiro. E rimarcando ossessivamente, come se ce ne fosse bisogno, gli echi veterotestamentari sottesi alla vicenda, con sermoni biblici che provengono dalla radio e i “padre nostro” che ricorrono puntuali in più punti.
Villeneuve, pur mantenendo la medesima impostazione granitica, farà meglio nel successivo Sicario, visto in Concorso al Festival di Cannes 2015 e ora in sala. Un film altrettanto interessante ma più aperto e più liquido, fortunatamente meno manicheo e assertivo: un’opera di confine, in tutti i sensi, che in quanto tale si dimostra più avvezza a lavorare sulle sfumature, sui pieni e sui vuoti, su esseri umani tutti d’un pezzo e animati da una volontà indistruttibile (il gigione Brolin, il vendicativo Del Toro), ma anche su figure più destabilizzate e tramortite (e con una valenza drammaturgica maggiore del Gyllenhaal del film precedente). In Sicario dopotutto lo spettatore non è vessato da un meccanismo che lo rende passivo rispetto a un entertainment ben confezionato ma con pretese moralistiche, che in fondo problematizza la violenza e il suo utilizzo sullo schermo solo fino a un certo punto. Può sposare, semmai, la passività di un personaggio, quello di Emily Blunt, che esattamente come un qualsiasi osservatore esterno non pare avere occhi per vedere (davvero) ciò che le accade intorno. Lo spettatore può così condividerne la fragilità e gli interrogativi senza risposta al cospetto di un sistema militare e di una pratica, la lotta al narcotraffico sul confine Messico - Stati Uniti, nella quale le luci e le ombre, a differenza del microcosmo di Prisoners, hanno una radice e una ragion d’essere che va ben al di là delle esigenze narrative di una storia già vista e sentita altre mille volte. Luci e ombre che ovviamente stanno anche dentro la fotografia del sempre geniale Roger Deakins, al servizio di Villeneuve in entrambi i film. Non a caso sospesa, in Sicario, tra pallore e oscurità, a ridosso del confine - ancora - tra il giorno e la notte, tra contrasti e ossimori autenticamente vibranti: a riprova di uno sposalizio tra forma e sostanza e tra direttore della fotografia e regista che può e deve far parlare, oggi come non mai, di autorialità espansa. Una nozione valida fino a questo momento quasi solo in ambito accademico, ma che forse meriterebbe qualche legittimazione in più anche all’esterno.