Dossier H. P. Lovecraft / 4 - La città dei mostri
Il classico di Roger Corman divora e rielabora l'immaginario dell'orrore in una visione ipnotica e ricca di sorprese.

Siamo negli anni Sessanta, l’epoca d’oro del cinema dell’orrore. Dopo i primi classici della Hammer e del cinema orientale che hanno punteggiato il decennio precedente, nei primi Sessanta autori come Roger Corman, George Romero e Mario Bava (senza dimenticare Hitchcock) prendono il testimone di un orrore nuovo e indisciplinato, facendone una vera e propria fucina di creatività e sperimentazione cinematografica. Il genere horror, insieme alla fantascienza vera e propria, si fa pessimistico contrappunto al mondo caotico e incontrollabile del secondo dopoguerra.
In questo contesto già intrigante, La città dei morti (The Haunted Palace, 1963) rappresenta una delle visioni più indefinibili per uno spettatore del ventunesimo secolo: indisciplinato, goffo, lento, eppure creativo e imprevedibile, il film di Roger Corman affascina come un curioso meccanismo d’altri tempi. Per scrittura e immaginario visivo, il primo adattamento lovecraftiano di Corman è una debordante fantasmagoria horror, sopra le righe anche per gli standard dell’epoca.
La città dei morti prende le mosse dal racconto Lo strano caso di Charles Dexter Ward, per poi proseguire in direzioni molto lontane dalla fonte letteraria. Il negromante Joseph Curwen (Vincent Price) viene messo al rogo a causa dei suoi esperimenti sulle donne del villaggio di Arkham. Un secolo dopo, Charles Dexter Ward (sempre Price) eredita la grande magione dell’antenato Curwen, e vi si trasferisce con la moglie Ann (Debra Paget), nonostante l’accoglienza a dir poco ostile degli abitanti di Arkham. Durante la sua permanenza nella vecchia casa, la volontà di Charles comincia a vacillare e lo spirito di Curwen prende gradualmente possesso del suo corpo. Curwen intende vendicarsi sul villaggio e proseguire con i suoi terribili rituali, ma la moglie trova un alleato nel medico del posto e cerca di salvare il marito dalla morsa del negromante.
Arkham è un teatro di posa buio e fumoso, abitato da uomini diffidenti e creature mostruose. L’atmosfera ricorda molto da vicino la Dunwich dell’ominomo racconto di H. P. Lovecraft (L’orrore di Dunwich). Fin dai primi minuti del film, Corman satura la visione di immagini e citazioni che fanno la gioia del cinefilo contemporaneo: La città dei morti è una visione onnivora che sembra cibarsi di ogni tropo narrativo e di ogni suggestione orrorifica a disposizione della settima arte: mostri, deformità, cimiteri immersi nella nebbia, antiche case in fiamme, esperimenti perversi... l’autore non esita a recuperare pezzi dei film precedenti, a ridipingere vecchie scenografie e a innestare materiali di ogni genere in un grande collage audiovisivo. L’incipit stesso del film ricalca molto da vicino la sequenza introduttiva de La maschera del demonio di Mario Bava. Naturalmente, tra le fonti più esplicite troviamo anche Edgar Allan Poe, dalla cui opera Corman ha già tratto diversi adattamenti cinematografici: il titolo originale del film rimanda a una poesia di Poe contenuta nel racconto La caduta della Casa Usher, che apre e chiude il film. Tuttavia dello scrittore Poe, nel film, c’è ben poco: l’autore di Boston è stato incluso per ragioni più pubblicitarie che filologiche. Ciò che si trova, invece, è Jean Epstein e il suo sublime adattamento de La chute de la maison Usher (1928), da cui Corman e lo sceneggiatore Charles Beaumont hanno tratto innumerevoli idee visive: il quadro come vascello dello spirito, la casa vivente e posseduta, i drappeggi e i personaggi, per non parlare della soffocante oscurità che è la vera cifra stilistica de La città dei morti.
Il classico di Epstein era a sua volta un adattamento creativo e anarchico dell’opera originale di Poe: un incubo in bianco e nero figlio di un’epoca in cui il cinema giocava a superare l’arte letteraria con gli strumenti della sintesi e della suggestione poetica. In questa idea di riappropriazione e di immaginazione anarchica, Corman costituisce la propria casa infestata: la popola di figure famigliari (l’inossidabile Price, le maschere e i mostri) e la riempie di trovate narrative rassicuranti, salvo poi sperimentare dove meno ce lo aspettiamo. Come nel colpo di scena finale, piuttosto coraggioso per l’epoca. O in scelte apparentemente innocue come quella di usare gli stessi attori per interpretare antenati e discendenti, senza nemmeno un velo di trucco aggiuntivo.
Non mancano trovate visive molto efficaci, come un fantastico raccordo di montaggio su una risata, o i memorabili titoli di testa: quando smette di esporre e raccontare, Corman trova l’incubo e il tic nervoso e apre un portale per l’orrore cosmico lovecraftiano. Ai margini di una sceneggiatura che non brilla per solidità e coerenza, ribolle l’inquietudine e il malessere: nel doppio volto di Vincent Price e in creature mostruose incatenate dietro porte chiuse (e che, nei fatti, non hanno quasi nessun ruolo nella vicenda vera e propria); nella sontuosa fotografia in technicolor, segnata dal buio opprimente degli esterni e degli interni, che dona all’intera storia un senso di inutilità e disperazione; nei feticci lovecraftiani, dal Necronomicon ai nomi impronunciabili degli Dei Esterni, nominati e abbandonati alla suggestione dello spettatore.
Il Lovecraft secondo Roger Corman è qui, nell’interstizio tra l’irrappresentabile e il gioco – necessariamente visivo – del cinema. Se una delle sfide storiche della settima arte è superare i limiti del visibile di un’epoca, La città dei mostri gioca su questo confine con incontestabile grazia.