Dossier H.P. Lovecraft / 5 - Il mistero di Lovecraft - Road To L.
Lo scarto dalla realtà dell'orizzonte lovecraftiano reinventato da Greco e Leggio attraverso la lente del mockumentary.
Per una primaria vertigine – eppur sottile, eppur superficiale – sarebbe bizzarro, quantomeno vacuo, accostare Howard Phillips Lovecraft e il mockumentary. Ma in ossequio alle speculazioni teoriche ed estetiche del suo seminale Supernatural Horror in Literature, postuliamo ed approfondiamo questo azzardo, gioco speculativo che si fonda su un accostamento di forme, sulla giustapposizione di elementi, su ricorrenze e confluenze non disattese.
L’opera letteraria e poetica del Solitario di Providence si basa essenzialmente su un orizzonte creativo: lo scarto della realtà. Uno scivolamento mai definitivo eppur progressivo, una perdita di informazioni dal sistema generale, uno sfocamento ai margini del quadro. La realtà da noi conosciuta, ed avvertita, diviene pian piano altra, ma non venendo spazzata via da enti paralleli e distanti, piuttosto affilando le sue forme, mostrando più connessioni, dividendosi in numerose stratificazioni. La realtà è un frattale, dove ad ogni nuovo ingrandimento – dovuto ad una maggiore consapevolezza storica, culturale, scientifica, sensoriale – divengono chiari i suoi diversi e tangibili e vicini aspetti. Questo per Lovecraft, questo per il mockumentary. Cosa è, infatti, questa corrente, che dal capitale The Blair Witch Project, non a caso datato 1999, annus mirabilis che ha visto proliferare anche Matrix, è centrale nella produzione filmica mondiale se non un disvelamento, conscio, della realtà attraverso la sua stessa negazione? Un gioco di possibilità che si eleva al quadrato se si pensa che viene realizzato all’interno del regime finzionale per eccellenza, il cinema, forma d’arte che però, più di tutte, aliena e viene ricondotta alla realtà. E i meccanismi drammaturgici di base, in una comparazione naturalmente molto approssimativa, a grandi linee sono gli stessi: l’universo lovecraftiano dove convivono la Miskatonic University e il Necronomicon – e su questo ultimo si potrebbe asserire che condivide anche la nostra realtà… – cosa ha di differente, nelle sua fondamenta, rispetto a quanto realizzato da Oren Peli e soci con i Paranormal Activity americani e giapponesi? Lo scarto dalla realtà si attua su un terreno fortemente realista, dove a variare sono solo i dettagli – date, luoghi, nomi –, che permettono il graduale scivolamento in uno stesso ma diverso piano dell’esistente, mantenendo oltre la cortina ora innalzata uno sfondo nitidissimo fatto dal normale corso della Storia.
Quanto scritto sopra non fa altro che da apripista e conferma all’interesse che può esserci in un mockumentary su Lovecraft, a maggior ragione se il lavoro ha dalla sua una consapevolezza che si annida sia nel versante prettamente fattuale – lo scrittore americano – che in quello teorico – l’intima natura del mockumentary stesso. E questo è il caso di Il mistero di Lovecraft – Road to L., prodotto altamente interessante del duo formato da Federico Greco e Roberto Leggio, autori di un lavoro dalla grande capacità pervasiva, sia per quanto riguarda la “confezione” generale dell’opera, sia per la collocazione nel panorama cinematografico (indipendente) italiano. Se infatti c’è un dato rilevante nella carriera di Federico Greco, questo è la grande capacità di leggere e decifrare in modo altamente mirato da un punto di vista estetico/storico e produttivo l’orizzonte filmico nazionale, con prove quali Stanley and Us o MEI [MEIG] Voci migranti a ricordare ciò. Il mistero di Lovercraft ne è la prima e più pregnante dimostrazione: il calibratissimo uso di uno scrittore a suo modo leggendario e foriero di strascichi misteriosi anche ai giorni nostri; il suo uso all’interno di un genere, l’horror, che viene portato alle più estreme conseguenze facendo collidere mockumentary e hype mediatico sulla falsa(?)riga di The Blair Witch Project; il calare tutta questa sovrastruttura all’interno di una cinematografia come la nostra che da decenni ha abbandonato ogni forma di riflessione e lavoro su se stessa; l’intuizione di rilanciare il film fin dall’inizio a livello globale, girando in inglese e utilizzando, appunto, stilemi prettamente “internazionali” – scelta che ha pagato viste le numerose partecipazioni a diverse manifestazioni, compresa la vittoria al Kardiopalmo Thriller Horror Cine Festival per la miglior regia. Se ciò non dovesse bastare, ricordiamo, infine, il fermento provocato a livello mondiale per il presunto ritrovamento di un diario dello scrittore americano e la realizzazione (?) del documentario Ipotesi di un viaggio in Italia, presentato nel 2004 alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia.
L’operazione compiuta da Greco e Leggio è insomma un unicum per quanto riguarda il fare cinema in Italia oggi, ma, lo ripetiamo, affonda le sue radici in un grande lavoro situato a monte rispetto ai falsi comunicati o al viral marketing. I due registi, perfettamente istruiti sul fatto che un lavoro del genere su un autore come Lovecraft, per la stessa portata dello scrittore, non avrebbe lasciato indifferenti, intavolano un’operazione fedele al mito e miticamente plausibile. Del resto tutto parte da alcune semplici suggestioni, come il fatto che il più grande lascito che il Solitario di Providence ha donato ai posteri è il suo taccuino, taccuino da cui scrittori come August Derleth (autorizzato dallo stesso Lovecraft in questo caso) hanno attinto per realizzare opere sul solco riconosciuto dell’autore di Dagon, e ancora che nella quarta di copertina del libro di Frank Belknap Long The Rim of the Unknown (1972) sia riportato che «Long ha l’onore di essere una delle sei persone cui Lovecraft, alla sua morte, concesse l’esclusivo permesso di servirsi dei suoi miti di Cthulhu e del suo taccuino per scopi letterari» – chi sarebbero gli altri quattro, esclusi Long e Derleth, a cui lo scrittore avrebbe concesso di maneggiare creativamente simile tesoro? A fronte di ciò si evince facilmente come Greco e Leggio avessero tra le mani un pozzo alquanto inesplorato..
Ma questa la possibilità, questo il limite. I due registi si son forse lasciati troppo cullare dallo sterminato orizzonte presente davanti a loro tralasciando, alla fine, questo stesso sterminato e pericoloso paesaggio. Quello che manca infatti ne Il mistero di Lovecraft è proprio la tensione della ricerca, l’intima cifra che porti a compimento tutta l’architettura fin lì costruita, la chiave che apra gli abissi lovecraftiani. Lo spunto di partenza è ineccepibile: a Montecatini, per un certo periodo residenza di uno dei migliori amici “epistolari” dell’autore americano – afflitto da quell’ossessione ossessivo-compulsiva da corrispondenza come solo un uomo profondamente ancorato tra ‘700 e ‘800 può avere –, viene ritrovato un diario che si presume redatto dallo stesso Lovecraft; il fatto ancor più singolare è che lì si narra della sua venuta in Italia prima del 1926 – anno da cui partono le sue composizioni maggiori – allo scopo di visitare la Biblioteca Marciana di Venezia e le terre del Polesine, luogo di gestazione e narrazione di miti leggendari. Una troupe eterogenea di italiani e americani ripercorre l’itinerario compiuto il secolo precedente dallo scrittore con l’intento di girare un documentario, ma tra la diffidenza degli abitanti del luogo e inquietanti sparizioni il bandolo letterario (e non) della matassa inizia a farsi più intricato e pericoloso…
Quanto raccontato, la sua struttura già vista altrove e riproposta in molte e specchianti varianti, prende purtroppo il sopravvento su tutto il resto. Greco e Leggio si preoccupano infatti di costruire geometricamente l’impianto horror-thriller del film, tralasciando colpevolmente il nerbo centrale che sorregge l’intero lavoro: le svolte narrative, le caratterizzazioni dei personaggi, il tono e la conclusione appaiono perfettamente deducibili fin dall’inizio, mentre il diagramma del mockumentary non viene interamente dispiegato. Pieni e vuoti figli di una tensione primaria – la presenza di uno dei massimi scrittori dell’orrore in una terra attraversata dal mistero come è il Polesine per cercare la sua reale ispirazione – non vengono eretti compiutamente, e quando questo avviene è oramai troppo tardi, come nel coup de théâtre finale dove veniamo a conoscenza della reale provenienza ed ispirazione di uno dei luoghi più terrificanti del secolo scorso, Innsmouth… Paradossalmente la coppia di registi ha reso centrale una costruzione filmica finzionale, sorvolando troppo velocemente sugli essenziali dettagli che rendono un mockumentary necessario a sé stesso, quella disposizione di elementi cesellati che vengono portati avanti nel corso della narrazione fino a diventarne la struttura portante, in un complesso gioco di rimandi interni che schiudono il reame principe di questo tipo di narrazioni, la verosimiglianza.