Dossier Lisandro Alonso / 2 - La Libertad
La libertad dello sguardo. Il lungometraggio d'esordio di Lisandro Alonso
Due autori importanti come Martin Rejtman e Pablo Trapero a produrlo, La libertad di Lisandro Alonso è al Festival di Cannes 2001, sezione “Un Certain Regard”, accanto a ‘R Xmas di Abel Ferrara nella giornata d’avvio. Quel Ferrara che pochi giorni fa Enrico Ghezzi, a Bari, in una serata dedicata a Pasolini, interrogava sulle ossessioni, con l’interlocutore a replicare subito: «Non saprei. Cosa intendi per ossessione?». Risposta, immediata: «È una ripetizione di cui ci sfugge la misura». Ecco, forse proprio qui, in questo varco, in questa apertura, abisso che ci condanna meravigliosamente a non sapere ma solo a scoprire, o forse soltanto alla splendida, indomabile illusione di poterlo fare, è possibile ritrovare un cineasta lontanissimo da Ferrara come Alonso.
Che spiega: «Mi interessa porre domande con il cinema – domande alle quali non trovo risposta. Mi interessa che il pubblico pensi, che resti attivo in sala durante la proiezione, che dialoghi con la pellicola. Che alle persone che guardano uno di questi film venga data la possibilità di allontanarsi attraverso i propri pensieri, di distrarsi e poi tornare al film in qualsiasi momento, come se ci fosse un dialogo»[1]. Parole, immagini che potrebbero essere quelle, poniamo, di un Apichatpong Weerasethakul, perdersi, vagare, un cinema che conosce nel profondo quello di Bresson e sa arrivare fino altrove, a Jauja, fra Herzog e il western classico. Ossessioni contro altre ossessioni pervasive: fasulle, triviali, immagini reazionarie, alienanti e totalitarie.
E già a partire da La libertad, lungometraggio d’esordio di un Lisandro Alonso ventiseienne, che fa del reale qualcos’altro, un’esplorazione che diventa altro spazio possibile, incerto, inatteso, lo svelamento graduale come un desiderio; che fa dell’atto del filmare questione primaria dello sguardo, che fa del cinema il pensiero tradotto in un pratica osservativa, movimento segreto di tracce, un ricominciamento. Da questo punto di vista, poi, La libertad assume valore ulteriore, proprio perché si tratta di opera dove la “storia” è ancora più essenziale, labile, quasi assente, rispetto a quelli che saranno i suoi film successivi: la giornata di un povero taglialegna, Misael. Il giovane vive in un bosco della Pampa argentina, la casa è una tenda, gli attrezzi del mestiere sono un’ascia, una pala, una motosega. Abbatte, taglia, scava, si sposta da un punto all’altro, fra suoni d’uccelli e d’animali, si ferma per “andare in bagno”, fra l’erba, ricomincia e arriva l’ora del pranzo, una pentola a pochi centimetri da terra è la sua cucina, il mondo è in una hit alla radio, fuma una sigaretta, si riposa sulla sua branda. Ancora, prepara la legna da vendere, la carica sul mezzo di un uomo accompagnato da suo figlio e un cane, va dal compratore che gli paga i tronchi meno del dovuto, una cabina telefonica ci informa che da qualche parte vive la sua famiglia. in un negozio acquista sigarette e una Fanta, chiede se ci sono prostitute nei paraggi. Torna nel bosco. Il finale è dove e quando il film iniziava: notte, tuoni e lampi in lontananza, un armadillo arrostito per cena con l’aiuto di un coltello a strappare la carne davanti al fuoco. Il nero, il suono della pioggia.
Questo è il film, il film di Misael, come Los muertos (2004) sarà il film di Vargas, per ritrovarli poi entrambi nel palazzo-cinema di Fantasma (2006). Il cinema di Alonso è l’isolamento, l’esilio, i confini e i limiti dei suoi stessi personaggi, i suoi “attori”. I loro luoghi, il legame profondo con essi, con l’ambiente, quello che i sui protagonisti sono è in questa relazione, fusione anzi. Come nelle opere che arriveranno dopo, ne La libertad il cinema avviene, vive, respira, pura registrazione del mondo come forma incompleta che lo sguardo di fronte allo schermo cerca di immaginare, di ripensare, rivedere, inventare; silenzi e dialoghi minimi, sequenze lente, distese, rarefazione e corpi fra aderenza e distanza, quadro e fuori campo. Un film di resistenza, quella del regista, quella del protagonista, un cinema straordinariamente umanista. É La libertad tra la luce e il buio della notte, di un film che giunge al termine, tra ciò che emerge gradualmente e ciò che resta negato, ossessione di un cinema che sembra nascere e rinascere ancora nella ripetizione, in una misura da cercare. In un’immagine inaspettata, nel movimento come grammatica del gesto, del vuoto, nel tempo magnifica sospensione.
[1] In Donatello Fumarola, Alberto Momo, Atlante sentimentale del cinema per il XXI secolo. Incontri con cinquanta registi contemporanei, DeriveApprodi, Roma 2013, p. 140.