Dossier Lisandro Alonso / 3 - Los Muertos
L’intero film è dominato da un senso di immobilità che imprime alle scene un’atmosfera satura, ora di calma e ora di inquietudine
Premiato al Torino Film Festival e presentato a Cannes, il secondo lungometraggio dell’argentino Lisandro Alonso, realizzato nel 2004, racconta il viaggio inconsueto e solitario di un uomo appena uscito di prigione. Film dilatato e sospeso, caratterizzato da uno stile quasi documentaristico, Los Muertos inizia con una sequenza a suo modo enigmatica e angosciosa: l’occhio della macchina da presa vaga nel verde vivido di una fitta e rigogliosa foresta fino a scoprire, come per caso, due corpi riversi a terra, seminascosti dalla vegetazione. A questo prologo carico di tensione, che sembra appartenere ad una dimensione più onirica che reale, segue la scena del risveglio del protagonista Vargas, che sta trascorrendo gli ultimi suoi giorni di carcere. Una volta uscito, l’uomo verrà – per così dire – seguito a distanza dallo sguardo asciutto e composto del regista, mentre si reca in alcuni negozi e compra un regalo per la figlia che spera di rivedere dopo tanti anni, quindi incontra una prostituta e infine si ferma a mangiare ad un chiosco. Arriva poi sulle rive di un fiume placido e limaccioso, dove lo attende una canoa scalcinata e un uomo che gli consegna un fiasco di vino. Da qui inizia il suo viaggio lungo il fiume attraverso la foresta. Vargas dovrà incontrare la figlia di un amico detenuto a cui dovrà consegnare una lettera, ma soprattutto spera di ritrovare la propria figlia.
Presto si comprende però che quello del protagonista è un percorso in cui non è importante la meta, perché la struttura e i meccanismi narrativi si sfaldano lasciando il posto al darsi spontaneo di una quotidianità fatta di tempi che si espandono, piccole azioni e immensi spazi in cui spesso la sola presenza umana è quella di Vargas, che appare come sperduto nella verde vastità del paesaggio. L’intero film è dominato da un senso di immobilità che imprime alle scene, al contempo, un’atmosfera satura ora di calma e ora di inquietudine: come un ossimoro dunque, questo racconto diventa un’indagine del rapporto che lega l’uomo e lo spazio e, in un certo qual modo, l’uomo e il mondo, dove il mondo resta in fondo come impenetrabile e indifferente all’agire umano, che proprio per questo appare improvvisamente svuotato del suo senso.
La dilatazione di una linea temporale sempre più disgregata, l’insistenza sull’attimo, sul dettaglio, su un’azione che diventa micro-azione, l’analisi minuziosa di una dimensione tutta transitoria e contingente che si fa sempre più liquida, ma al contempo, proprio grazie a questa esplorazione insistita, si ispessisce divenendo sempre più pregnante: qui sta il nucleo poetico dello sguardo del regista argentino, il cuore pulsante del suo cinema. Tanto più che questo approccio e queste tendenze le si ritrovano quasi invariate in gran parte del suo lavoro, e perfino il recente Jaujia – 2014, con Viggo Mortensen – pur essendo un’incursione nel western, rivela un afflato tutto esistenziale, e mette in scena ancora una volta una ricerca che da concreta e pratica si fa interiore, spirituale.
Come alcuni grandi registi del passato e del presente – valgano per tutti Michelangelo Antonioni e Bela Tarr, esempi eccellenti in questo senso – Alonso pone in secondo piano, a volte drasticamente abolisce, la solidità narrativa, rompendo le gabbie dei rigidi nessi causa effetto per sconfinare in una dimensione fluida, lirica, aperta; e al contempo pone al centro della sua riflessione un paesaggio che non è più solo sfondo, ma una sorta di sostanza viva che avvolge l’agire umano però senza empatia, ponendosi quasi come termine di confronto rispetto a esso. E così facendo – e pensiamo ancora all’Antonioni de L’Avventura o di Professione Reporter – costruisce con estrema naturalezza un discorso ermetico e tuttavia proprio per questo ammaliante attorno all’ignoto, all’immateriale, all’esistere come essere nel mondo.
Questo processo si compie attraverso una messa in scena che, come già accennato, in particolare in Los Muertos, vuole assottigliare sempre più la sua componente di fiction: quello di Alonso è un cinema che riflette, con un certo fascinoso distacco, sulla realtà rappresentata puntando a modificarla e alterarla il meno possibile. Resta forte, da questo punto di vista, la marcata impressione di naturalezza che comunicano tanto le immagini in sé per sé quanto gli interpreti. L’obiettivo della macchina da presa sembra costantemente proteso a ricercare una realtà autentica e oggettiva, e in questo modus operandi si inscrive quindi anche la necessaria crudezza di alcuni passaggi ((l’incontro con la prostituta, l’uccisione di una capra da parte di Vargas). Ciò che più colpisce di Los Muertos è tuttavia quel senso palpabile di mistero che pervade il film nella sua interezza, grazie anche a quelle lievi tracce e a quegli indizi ambigui (come il prologo con i corpi esanimi tra l’erba e l’idea della ricerca della figlia lontana) che il regista distribuisce nell’arco del racconto, ma che non sono utili allo spettatore per comprendere il senso del film che è invece altrove. Con il suo secondo lungometraggio, così intrigante nella sua staticità imperscrutabile e per certi versi radicale, Alonso firma un’opera di grande bellezza che coglie e rappresenta con un indovinato e attento minimalismo la quotidianità di un vivere marginale, povero, essenziale.