Dossier Lisandro Alonso / 5 - Liverpool
Ennesimo corpo errante della filmografia di Alonso che arriva a sottrarsi dai nostri occhi e dallo sguardo stesso del regista.
La prima cosa che viene in mente guardando Liverpool di Lisandro Alonso è che si tratti di un’opera che continua. Questa volta lo spazio con cui il regista argentino inaugura il film non è il grembo cadaverico di una natura onirica eppure tangibilissima, ma gli ambienti asettici di una nave cargo che opprime i corpi, soffoca i dialoghi, crea distanze tra gli uomini, consegnandoci già un senso di estrema, irredimibile solitudine.
Il protagonista del film, Farrell, è l’ennesimo uomo senza passato del cinema di Alonso. Come Argentino Vargas, protagonista di Los Muertos e Fantasma, è un personaggio solo, reticente e schivo, che trova la sua identità nella figura del viaggiatore misterioso che deve tornare a casa. Più che un personaggio, Farrell è un archetipo, un corpo, un topos letterario che, paradossalmente, finirà per annullare se stesso.
Se è vero che il tema del ritorno investe gran parte del film, Alonso ne scarnifica l’intero immaginario mitico, elimina tappe drammaturgiche a favore dell’idea, essenziale e irrinunciabile, che ogni corpo sia parte organica di uno spazio, che ogni esistenza sia puro, imprescindibile movimento.
Quasi come fosse una scultura in viaggio, il personaggio di Farrell denuncia, immediatamente, qualsiasi elevazione, qualsiasi intellettualizzazione di questo cinema. Fin dai tempi de La libertad non è difficile comprendere come la poetica di Alonso sia basica più che basilare, libera, perfino elementare, ma soprattutto fisica. Là dove il fisico è sempre imprescindibile dal metafisico.
In Liverpool, l’uomo è trattato alla stregua di un fenomeno. Lo sguardo di Alonso è posato su un movimento che, nella dilatazione-distensione dei tempi, rivela la sua stessa, sotterranea, portata metafisica. Questa sorregge e alimenta ogni gesto, ogni passo, perfino ogni paesaggio del film
La giornata di un taglialegna in La Libertad, i cadaveri-radici che aprono profeticamente Los Muertos, il guardarsi con i propri occhi di Fantasma o il perdersi di Jauja, trovano il loro unisono nell’immagine-scomparsa di Farrell che si allontana da noi in un campo innevato. Quell’immagine è il cuore stesso di Liverpool.
L’erranza, fil rouge del cinema di Alonso, non ha nulla di estatico, non è volta a riscoprire il legame sacro con la terra, non si eleva allo spirituale o al filosofico, ma rimane ancorata al suolo, finendo per mandare in trance lo spettatore stesso. Il cinema di Alonso è terra, fango, alberi e foglie, mai cielo. Neanche desidera, herzoghianamente, quel cielo, non si pone nemmeno il problema della sua esistenza. D’altronde, chi recepisce le immagini di Liverpool non si scopre estasiato dalla loro bellezza, non le contempla passivamente, ma ha la sensazione di compartecipare a un viaggio, di camminare assieme alla figura stessa che anima il film, di modellare le immagini nella sua mente.
Il protagonista è un nomade, un individuo che non arriva mai a destinazione (e che, quando arriva, scopre che quella meta era solo parte di un viaggio), un corpo che appare e scompare ma continua, imperterrito, a viaggiare. Dalla nave cargo in cui si era rifugiato, Farrell intraprenderà un viaggio che lo porterà in un piccolo villaggio della Tierra del Fuego. Lo "scopo" è tornare a casa per scoprire se la propria madre è ancora viva. Eppure, come accade sempre in Alonso, il momento stesso dell’arrivo è perfino deludente. Non esiste pathos, riconciliazione, esito, addirittura un fine nel suo cinema, perché ciò che filma è la materia stessa di cui sono fatte le immagini, rifiutando qualsiasi enfasi o drammatizzazione.
Alonso, e qui sta la sua grandezza, non interviene su questa materia, ma la registra come fosse un fenomenologo che ha smesso di credere in conflitti o catarsi improvvise. Il suo gesto filmico, reiterato in Liverpool fino alla sua stessa eliminazione, è il pedinamento, il percorso, lo scorrere stesso delle cose e del tempo, senza alcuna possibilità di bloccarsi, di concentrarsi, di arrivare a un esito.
Il protagonista giunge alla meta ma, immediatamente, ci rendiamo conto che c’è dell’altro, che il film non può finire, perché Farrell non è mai arrivato (o meglio, è già in procinto di ripartire). Torniamo all’inquadratura sovracitata: il corpo pedinato del protagonista si allontana nel campo innevato, facendosi sempre più piccolo, sempre più distante dai nostri occhi, fino a diventare un puntino sulla neve, già pronto a scomparire. Disorientati lo vorremmo ancora con noi, perché la sua mancanza ci fa perdere tra le immagini, lasciandoci in balìa di un film che non sappiamo più dove andrà.
Emancipandosi da un mondo di retaggi letterari, si ha come la sensazione che il cinema scivoli via, liberando Farrell e qualsiasi labile ipotesi di narrazione. La figura letteraria distrugge se stessa con una sola inquadratura che prefigura una perdita: quella della storia, della narrazione in toto, quella in cui si potevano ancora manovrare i fili della vita. Ciò che rimane si situa un passo oltre il cinema, un passo oltre la letteratura: è l’esistenza stessa, proiettata come un altrove lontano. Superate frontiere e confini, Liverpool trova casa in quel terreno auratico che è l’Oltre.
Quest’Oltre sopraggiunge quando il film si sottrae alle coordinate precedenti. Al grado zero della narrazione, avviene dunque uno scarto, uno slittamento improvviso, un autentico shock percettivo. Finalmente libero ed emancipato, un cinema sempre legato all’uno, al singolo, all’isolamento, si apre inaspettatamente all’altro, o meglio agli altri, a tutti gli altri.
Liverpool, sorprendentemente, restituisce tempo e attenzione alla vita quotidiana degli abitanti del villaggio. In questo radicale cambio di rotta, che è anche un’eliminazione improvvisa del punto di vista, il film cambia pelle e punta il suo obiettivo su qualcosa che squarcia, supera, declassa se stesso. Tracciando le coordinate per Jauja, Alonso entra definitivamente in quell’altrove liberissimo dove tutto procede. E’ la conseguenza del mondo, il fatto stesso che ogni cosa sia, inevitabilmente, al presente. Se in Liverpool non c’è passato, non rimangono nemmeno le tracce di un futuro.
Il cinema di Alonso è qui e ora, non presenta residui di una scrittura che non sia il gesto filmico stesso. Un gesto in continuo, abissale movimento.