Dossier Pedro Costa / 2 - No quarto da Vanda
Nel tempo che si passa insieme
“Come si fa il cinema? E’ molto semplice. Si prende un autobus o la macchina o il motorino e si va da qualche parte”. In queste semplici parole, pronunciate da Pedro Costa ai tempi del documentario Tout Refleurit, troviamo condensato tutto il suo cinema; il metodo di lavoro, la filosofia estetica, la visione del mondo, il gesto profondamente umanista e anti-autoritario che sottende tutte le sue immagini, in particolar modo quelle che da No Quarto da Vanda in poi segnano in maniera indelebile la sua carriera, andando a costituire un corpus filmico completamente alieno a qualsiasi categorizzazione. Questa frattura, intervenuta alla fine degli anni Novanta, ovvero subito dopo Ossos, si è prodotta proprio a partire da quel banale movimento che il regista descrive nell’intervista, nell’avvicinamento progressivo, e sempre rispettoso, ad un luogo e alla sua comunità; in principio originatosi su un set, diremmo convenzionale, e poi prolungatosi fuori campo. Questo prolungamento, questo movimento porta in sé l’idea di una scoperta, di un mondo ai margini nel quale lentamente addentrarsi, e di una visione che sovverte le gerarchie e le geografie consolidate del cinema. Visione che poi produrrà tante esperienze analoghe nel corso degli anni Duemila. Niente set, attori, troupe e piani di lavorazione. Il cinema prima ancora che farsi si vive quotidianamente al fianco delle persone, condividendo lunghi tratti delle loro esistenze. Dall’incontro e dalla condivisione nascono le immagini. Lo iato che intercorre tra i film di Pedro Costa lo si ritrova tutto dentro le sue immagini. Ma non in una logica banalmente accumulatoria che mira a mettere insieme più materiale possibile al fine da estrarre momenti significativi come pescando a caso da un mazzo di carte. E non è nemmeno l’idea vampirica di un cinema che si nutre delle vite altrui e che nella durata della lavorazione prova a succhiare più energia possibile, fino al punto da ri-creare film lunghi, sofferti, complessi e contraddittori come intere esistenze. Ci sembra piuttosto il contrario, ovvero che i film di Pedro Costa si originino senza calcoli né pianificazioni, quasi casualmente, nel tempo che si passa insieme. Il cinema, in sostanza, arriva dopo i legami e non prima. Ed è questo in fondo che ha poi portato il regista a continuare nei film successivi a raccontare le storie di Vanda e soprattutto di Ventura oltre il barrio di Fontainhas, ovvero a prolungare ulteriormente questa ipotesi filmica alternativa e marginale fino a farla coincidere con la propria carriera artistica e dunque con la propria vita. Fatta eccezione per Ne Change Rien, naturalmente. E allora, torniamo al punto da cui tutto ha avuto origine, ovvero Fontainhas e la stanza di Vanda. Un’origine già segnata sin dal principio dall’idea della fine, dalla minaccia della morte. Questo vale per i corpi di Vanda, della sorella Zita (venuta a mancare qualche anno dopo), e degli altri abitanti (consumati dal crack e dall’eroina), e soprattutto per il quartiere stesso, condannato alla demolizione. Il film intreccia queste due linee tenendo sempre lontane le lusinghe della poesia e della metafora. Non vi è insomma l’idea di una distruzione architettonica quale corrispettivo dei corpi in disfacimento. E nemmeno, d’altra parte, l’impassibile e spietata registrazione di un fenomeno sensazionalista (le siringhe, il degrado, ecc..) da dare in pasto al pubblico borghese. Pedro Costa resta al fianco delle persone trovando un equilibrio miracoloso tra distanza e prossimità. La vicinanza emotiva e fisica è rintracciabile non banalmente dall’invasione di uno spazio privato, come lo è la camera da letto di Vanda, ma piuttosto dall’articolazione del montaggio, che alterna e varia quasi tutta la scala dei piani, seguendo un ordine diremmo più affettivo che razionale. Non c’è insomma né l’intenzione di restituire una coerenza spaziale (le coordinate del barrio restano misteriose, come fosse un labirinto di vicoli) né tantomeno la volontà di donare un ordine al caos. La forma sembra avvicinarsi e incontrare le esigenze (e in alcuni casi l’emotività) delle persone, non viceversa. In No quarto da Vanda si filma la sofferta e allo stesso tempo banale resistenza quotidiana alla vita. Lo strumento principale resta la parola, veicolo di paure, incertezze, incognite, desideri, ricordi, ma anche più semplicemente di quei dialoghi che cadenzano ogni esistenza. Il suono delle voci in alcuni momenti si incrocia con quello delle ruspe, raccordando il dentro e il fuori, il campo e il fuoricampo; soglie sottilissime, quasi inesistenti, come quella tra la luce dell’esterno e il buio delle baracche. Una dialettica ancora una volta ribaltata rispetto alle consuetudini. Qui persino l’elettricità è un lusso per pochissimi, mentre la luce del sole denuncia in alcuni casi la fragilità e la precarietà dello spazio abitativo, o peggio minaccia l’arrivo delle ruspe, dalla cui azione distruttrice riesce a diffondersi raggiungendo gli angoli più bui del quartiere. Quando non resterà neanche più una traccia del quartiere il cinema di Pedro Costa si sposterà altrove, seguendo le rotte fisiche e mentali degli abitanti, colti in una piccola grande diaspora (che ne riflette altre ben più importanti storicamente, come quella capoverdiana) senza fine.