Dossier Pedro Costa / Cavallo Denaro
Cinema come movimento internoeterno all’immagine, chiaroscurale impronta del mondo
Dove siamo in Cavalo Dinheiro? Dentro quale tempo avviene questo ipnotico fluire e sfaldarsi di senso? Forse non può che essere questo (ancora): realtà che si rivela all’occhio del regista. Perché qui sembra vivere, formarsi l’ultima opera di Pedro Costa: non una rappresentazione, ma una proiezione del reale; non autismo d’autore ma il cinema che (ri)nasce come immagine originaria, una lingua vergine, territorio aperto. Ecco perché Ventura, personaggio simbolo, storico, della filmografia di Costa, può attraversarle quelle immagini, quel cinema, come figura corpo parola (e spettro poi) di quella invenzione del mondo. Cavalo Dinheiro non può essere, non è summa ma approdo e ricominciamento, un nuovo ritorno, in un tempo che non esiste, e che per questo può essere una realtà senza nome, irreale, un film-set-vita in abisso, movimento internoeterno all’immagine. Che, qui, ancor più che nei suoi lavori precedenti, è infine resistenza: contro sé stessa, contro il suo (e la sua) “fine”. D’immagine, appunto.
E l’inizio del film, allora, può arrivare da un altrove: fotografie dalla fine dell’Ottocento, dove la forma umana è quella degli esclusi sociali, a Mulberry Street, New York, negli scatti in bianco e nero di Jacob Riis. Ché la forma umana e i luoghi che abita, che la abitano, come il quartiere di Fontainhas di Lisbona che già da No Quarto da Vanda (2000) iniziava a farsi, o già lo era, fantasma, sono discorso nel cinema del regista portoghese, l’espressione stilistica e la sostanza. Cavalo Dinheiro è, in un certo senso, la realizzazione di Juventude em marcha (2006) e del corto Lamento da vida jovem (compreso nel film collettivo Centro Histórico, del 2012: con Costa anche Victor Erice, Aki Kaurismäki e Manoel de Oliveira) che in quest’opera ritorna ma diverso. Meglio: Cavalo Dinheiro ne è il paradossale compimento, un flusso sospeso e infinito, e non c’è più luogo e tempo, e forse non ci sono mai davvero stati, c’è una vertigine sotto quei quadri di macchina fissa; è qualcosa che germina nella sconfitta che la Storia ha sancito (storia di una Nazione, la Rivoluzione mancata, gli ultimi rimasti ultimi, e Ventura è questa condizione umana, qui intagliata mai come prima in un transito, in uno spazio – come dire, proprio audiovisivo – altro).
È nel cortocircuito tra le mani ripetutamente, ossessivamente tremanti, nervose di Ventura e la lentezza del film (altro meraviglioso paradosso, poiché Costa azzera la “pesantezza” della macchina-cinema, del dispositivo; e già Roberto Silvestri, a proposito di Juventude em marcha, aveva scritto splendidamente: “Film lento? Sì, ma come Ronaldinho poco prima dell’incursione fulminante”). È cinema politico, innanzitutto, allora, perché nella fusione “intraducibile” (o nella destrutturazione narrativa?) di vita e morte, di materia e fantasmi e Storia, di personaggi e parola come gesto stroncato, impossibile, come fosse fuori sincrono rispetto a quella Storia, si fa reviviscenza misteriosa e limpida, chiaroscurale impronta del mondo, fasci di luce di memoria e alterazione, slittamenti, un ibrido sensoriale potentissimo.
Un film letteralmente sotterraneo, sotto la superficie, e terrestre ed extraterrestre, materico, ma sempre brulicante come tensione muta allo sconfinamento, oltre le cose, oltre il cinema, oltre il set, la vita stessa, tra un dentro e un fuori della visione, lungo linee di forza indecifrabili, tra un letto di morte di un ospedale e una foresta, tra incontri, passaggi, dialoghi e monologhi di corpi e apparenze, un ascensore e un soldato venuto dal passato: “Dove sei ora, Ventura?”.