Dossier Satoshi Kon / 3 - Tokyo Godfathers

L’avvincente favola natalizia di Satoshi Kon, tra magia e rifiuti

La terza creazione di Satoshi Kon, la prima a essere distribuita nel circuito cinematografico italiano, si inserisce nella filmografia del regista come opera d’impianto apparentemente più classico sia se paragonato alle pellicole precedenti, Perfect Blue e Millenium Actress, sia al suo ultimo grande film, Paprika - Sognando un sogno, meraviglioso testamento di un artista talentuoso e brillante che, pur lasciandoci troppo presto, ha segnato una traccia profonda e definita nella tradizione degli anime giapponesi, nonché nella cinematografia universale. Caratteristica fondamentale dell’autore, rintracciabile fin dai suoi primissimi lavori, è quella di concentrarsi prevalentemente sulla psicologia dei personaggi, spesso complessi ed elaborati, emblematicamente incarnati in disegni incentrati sulle espressioni facciali, straordinariamente duttili e marcate, in piacevole contrasto con la staticità degli sfondi, teatrini di colore entro cui si muovono le figure immaginate da Kon.

Tokyo Godfathers è una favola natalizia per adulti ambientata nel cuore della capitale giapponese, città in cui il Natale è spogliato dai suoi significati religiosi e celebrato in quanto festa meramente commerciale. Il film, infatti, conserva solamente pochi tratti dell’ispirazione apparentemente cattolica che sembra caratterizzare la trama, cogliendo lo spunto dell’evento miracoloso, il ritrovamento di un neonato tra i rifiuti, per indagare temi contigui ma ben diversi. Il regista traccia una linea ermeneutica parallela e stimolante, mescolando armoniosamente sollecitazioni che appartengono al mondo occidentale, in particolare legate alla psicoanalisi, sempre presente nelle opere di Kon, con suggestioni e scenari della cultura nipponica creando, infine, un’opera profondamente emozionale e umana, completa e universale.

La pellicola narra le vicende di un’improvvisata ed improbabile famiglia di clochard composta da Gin, un senzatetto ubriacone, Hana, un travestito, e Miyuki, una ragazza adolescente scappata di casa. Sappiamo poco o nulla dei tre protagonisti quando la notte della vigilia di Natale, mentre rovistano tra i rifiuti, trovano un neonato. Mossi individualmente da emozioni e pulsioni che troveranno una reale spiegazione solo nello svolgimento della trama, i tre decidono di tenere con sé la bambina finché non potranno riconsegnarla alla madre naturale. Così ha inizio l’avventura che li porterà a confrontarsi con quella realtà da cui, per motivi diversi, avevano deciso di fuggire.

Nella tela tessuta da Kon, solo apparentemente lineare, il ritrovamento della bambina non si riduce a mero espediente narrativo ma si fa anche metafora ideale delle vite che l’autore giapponese vuole rappresentare. Vite “gettate tra i rifiuti”, a cui i tre protagonisti hanno rinunciato, dettate dall’incapacità di confrontarsi con le conseguenze delle loro scelte e con le sofferenze provocate dalle loro azioni. Il neonato ha così la funzione di risvegliare dei luoghi del sé che i tre avevano deciso di negare, di affogare nella spazzatura, accontentandosi di una vita del tutto scevra di responsabilità, vissuta giorno dopo giorno, senza doveri, assuefatti dal gioco quotidiano in cui ricostruiscono dei legami illusori, da cui credono di poter fuggire in ogni momento. Le attenzioni dedicate alla neonata diventano così metafora delle cure che fino a quel momento i tre avevano scelto di negarsi. Con il sapiente articolarsi della trama, pieno di quelle coincidenze tipiche del racconto di Natale, emergono infatti le ferite subite dai tre, costretti a sviscerare pian piano le ragioni che li hanno portati a rinunciare a una vita completa.

Nella pellicola la città diventa protagonista. Non a caso il titolo a cui si ispira Satoshi Kon, The Three Godfathers (film tratto dal romanzo dell’americano Peter B. Kyne, di cui esistono diverse versioni, la più autorevole diretta nel 1948 da John Ford) è tramutato dall’autore in modo da dare risalto alla città di Tokyo, ambientazione che determina una netta cesura con il western americano che lo precede e che diventa parte integrante e fondamentale della narrazione. Una metropoli danzante che pulsa talmente di vita da “partorire” un neonato dal suo ricco ventre di magia e sporcizia. Una bambina, simbolo di vitalità e purezza, emblema delle infinite potenzialità dell’essere umano e catalizzatore naturale dell’elaborazione delle vicende personali vissute dai tre.

Autore: Lulu Cancrini
Pubblicato il 10/05/2015

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