Dossier Satoshi Kon / 4 - Paranoia Agent

L'unica serie televisiva firmata da Satoshi Kon, una decostruzione del reale in 13 frammenti

Un uomo ride sguaiatamente in cima alla Tokyo Tower, sorta di copia colorata di rosso e bianco della Torre Eiffel di Parigi. Ride con le mani alzate al cielo, dietro di lui un fungo atomico si innalza inquietante, sontuoso, minaccioso. Si tratta di una delle prime immagini della sigla che apre l’unica serie televisiva diretta da Satoshi Kon, Paranoia Agent (M?s? dairinin, 2004). Un’immagine che, come il resto della sigla, racchiude il significato dell’intera opera di Kon. Composta da tredici episodi pensati come autoconclusivi ma ciascuno tassello di una narrazione più ampia, in cui personaggi, storie, suggestioni tendono a incontrarsi, scontrarsi, esplodere, deflagrare in un delirio che sfida direttamente la realtà, Paranoia Agent è di sicuro l’opera in cui Kon, su sua stessa ammissione, ha avuto la possibilità di esplorare nuovi e più interessanti territori connessi alla sua visione. Questo perché, a differenza del lungometraggio, non aveva limiti di tempo: per questo motivo Paranoia Agentrappresenta in qualche misura l’opera definitiva di un artista capace di rilanciare in termini intellettuali e sperimentali l’animazione giapponese e di sdoganarla addirittura a livello internazionale.

Attraverso la storia di Tsukiko Sagi, designer un po’ timida, un po’ stressata, un po’ paranoica, conosciamo le storie di tutto l’universo che la circonda e la comprende. Dalla sua singola esperienza (l’essere stata aggredita da un fantomatico ragazzino munito di mazza e rollerblade) l’occhio del regista si espande, fino a divenire uno sguardo assoluto su una società alla deriva. Se è vero che l’elemento onirico è parte integrante di Paranoia Agent, è altrettanto vero che in essa si annida un discorso meta-sociologico di ampia portata. Un discorso che vive di trasversalità: la storia di Tsukiko attraversa e tocca innumerevoli altre storie, che nascondono invidie, amori, paure, incubi. Ma non solo a livello esistenziale: le categorie raccontate in Paranoia Agent (dalla designer al poliziotto corrotto, dal senzatetto al giornalista pieno di debiti, dalla donna vittima della propria doppia personalità al povero animatore pressato dalle consegne) sono tasselli di una società frantumata, atomizzata, isterica. Una società che è sogno di progresso ma che spinge alla fuga. La fuga: ecco quale è il comun denominatore di molte delle storie narrate in questa serie. Fuga dalla realtà, fuga dal sogno, fuga dal proprio Io. La fuga è il movimento che più iconizza il cinema di Kon: fugge Mima dal proprio Io in Perfect Blue, Chiyoko dalla linea che separa realtà e finzione in Millennium Actress, i tre senzatetto di Tokyo Godfathers fuggono dal proprio passato. Ed è una fuga continua quella narrata in Paranoia Agent, che diventa facilmente il simbolo di un cinema capace di riflettere con trasversalità sulle dinamiche che popolano l’immaginario collettivo che, sempre più, influenza il nostro modo di guardare e vivere il mondo.

Immagine rimossa.

Ovvio che, in un turbinio dove tutto è possibile e la potenza distruttrice e creativa dell’artista è lasciata in totale libertà, non poteva mancare l’elemento metacinematografico che, non a caso, è probabilmente tra i fattori più cruciali nell’opera di Kon. Il cinema e le sue potenziali forme di rappresentazione ruota intorno alla serie, vi gravita senza sosta, la pressa senza pietà, ne colma gli spazi vuoti. Il cinema, portato al parossismo dalla figura dell’animatore, che subisce il peso dell’immagine in movimento come catarsi altrui tanto da esserne annullato, è quasi un personaggio che, all’ombra di tutto, condiziona l’intera storia. Ed il potere del cinema di condizionare l’immaginario è veramente il modo in cui Kon interpreta la Settima Arte (salvo poi dichiararne eterno amore in Paprika – Sognando un sogno). Shonen Bat è il personaggio che, nel tempo, assume grandezze iconoclaste di smisurata grandezza, l’incubo con funzione salvifica che tutti vedono come purificatore delle loro esistenze. Shonen Bat è un’illusione che acquista concretezza, un feticcio che conquista un significato. Shonen Bat è il cinema.

I registri che compongono quell’affresco schizofrenico che è Paranoia Agent sono molteplici e, in qualche misura, riflettono un genere cinematografico specifico (idea che sarà ripresa e ampliata in Paprika – Sognando un sogno). Dal mistery alla commedia, dal dramma al satirico, Kon tocca anche argomenti particolarmente sensibili (la prostituzione, il suicidio) con una proprietà narrativa e una fermezza degni del miglior Billy Wilder. Ma è soprattutto quando travalica i limiti del reale che Kon mostra a tutti le sue incredibili capacità di autore a tutto tondo: quando il sogno contamina la realtà, Kon trova una dimensione quasi epica. Quando la realtà si fa sempre più rarefatta, la poesia del cinema di Kon emerge con una potenza visionaria e al tempo stesso distruttiva (da buon erede di Katsuhiro ?tomo). In questo modo il tempo si annulla, passato presente e futuro si intersecano fino a congiungersi, mentre i deliri di un povero vecchio che scrive con un gesso sulla strada rivelano, nella parola A-NI-ME, il senso stesso di una vicenda universale e assolutizzante. L’ultimo, geniale tocco di un regista che ci ha lasciato davvero troppo presto. Paranoia Agentè talmente cruciale e radicale da considerarsi quasi il titolo che chiude la stagione magnifica e fiorente della NAS (Nuova Animazione Seriale), inaugurata da un titolo che, per certi versi, ha molto in comune con la serie di Kon, Neon Genesis Evangelion. Ed è un’opera talmente immensa da mettere in difficoltà lo stesso suo autore che con il lungometraggio successivo Paprika – Sognando un sogno, comunque meraviglioso, non ha potuto far altro che replicare le direttrici principali di Paranoia Agent, che è e rimarrà l’icona più rappresentativa della suo strabiliante contributo al cinema.

Autore: Andrea Fontana
Pubblicato il 13/05/2015

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