Dossier Steven Spielberg / 17 - Minority Report
Dal racconto omonimo di Philip K. Dick, Steven Spielberg trae uno dei suoi film più oscuri e teorici, senza lasciare da parte il gusto per il nitore classico della narrazione.
Qualcosa è cambiato.
Il regista della nostra infanzia, il padre buono di E.T. e Incontri Ravvicinati, il Peter Pan della luce calda, si trova catapultato in una distopia metallica, in un futuro olografico e inquietante creato dalla mente visionaria di Philip K.Dick. Vetri trasparenti, colori desaturati, droghe allucinatorie e incubi virtuali caratterizzano quest’inquietante, futuribile noir: il sogno del progresso si è ribaltato in incubo tecnologico, l’utopia scientifica è divenuta distopia celeste. Privacy e intimità sono i primi baluardi da abbattere all’interno dell’(anti)etica della Pre-crimine, un corpo speciale di polizia che – attraverso le visioni dei tre pre-cog, individui dotati di poteri precognitivi – vede e sventa gli omicidi che devono ancora essere commessi. Un metodo infallibile dove la pubblica amministrazione agisce seguendo le visioni di angeli preveggenti, allo scopo di alterare il futuro e salvare le vittime di futuri omicidi. Ogni visione è dunque una previsione: l’efficienza supera la morale, la sicurezza viola il privato, il pensiero stesso è condannabile perché già proiettato in un domani unico e privo d’alternative.
Si è colpevoli ora per ciò che si commetterà dopo. L’inevitabilità di un’azione diviene dunque una sorta di precetto teologico: l’antica visione dei profeti si fa dogma della giustizia. E i profeti non sbagliano mai, eppure potrebbero non essere d’accordo…
Fulcro tematico del film è certamente l’identificazione tra immagine e giustizia. Da questo punto di vista, con Minority Report, Steven Spielberg realizza la sua opera più teorica rimanendo ancorato al nitore radicale della narrazione classica. Quando flirta con fascinazioni depalmiane e abissi kubrickiani, non tenta di astrarre in alcun modo il racconto, ma anzi, ne restituisce subito tutto il peso, la gravità, il corpo. Più che geometrie o superfici al centro del suo cinema rimane sempre e comunque l’uomo (e la violazione di quest’uomo è l’incubo più grande che il cineasta possa immaginare). Quando racconta l’inumano, Spielberg lo fa da un punto di vista straordinariamente umano (ed è questa, ci pare, una delle differenze fondamentali rispetto a tanti cineasti contemporanei che indagano il virtuale).
Interrogarsi sulla verità delle immagini senza sfuggire al fascino dell’affabulazione, lavorare su un nuovo tassello di cinema popolare cantando allo stesso tempo la vittoria dell’umano sul virtuale: nelle esplosioni di luce fredda del film, Spielberg ricerca continuamente un calore originario, una dimensione altra dove poter tornare a vivere. Privatamente. Intimamente.
Se la Pre-crimine è un’organizzazione perfetta, l’errore non può che rivelarsi l’uomo stesso. L’umano è l’anomalia del sistema. L’individuo deve tornare a scegliere, a creare un proprio, liberissimo futuro e, d’altronde, non c’è nulla di più spielberghiano di questo.
All’indomani dell’undici settembre (sebbene il film sia girato prima dell’attentato, e questo paradosso lo rende ancora più affascinante), ci si chiede: possiamo ancora fidarci di un’immagine? Tutto Minority Report è un film tragicamente legato al nostro tempo, ancora di più oggi, nel 2016, invasi come siamo da uno tsunami d’immagini terroristiche. A rivederlo dopo anni si scopre un film di rara, preziosissima urgenza per come riflette sull’uso delle immagini da parte del potere. L’assioma è semplice ma destabilizzante: se un’immagine viene messa nelle mani della giustizia, è destinata a divenire immagine-giustizia. Essa si trasforma, a tutti gli effetti, in un’immagine che uccide: che Spielberg abbia realizzato il suo personale Occhio che uccide d’altronde è un sospetto vertiginosissimo. Tom Cruise sposta, rallenta, indaga immagini in un autentico touchscreen della mente. Il vero protagonista del film è ancora una volta il bulbo oculare, e non poteva essere altrimenti: con Minority Report si spalancano nuove declinazioni dello sguardo digitale, modi inediti di vedere e percepire il mondo, o la sua immagine. L’impronta digitale è divenuta oculare, gli uomini sono sempre riconoscibili, rintracciabili, localizzabili. L’occhio si fa organo identitario: vedere il mondo significa essere visti dal mondo. Allora bisogna cambiare occhi per poter vedere più chiaramente, come farà il protagonista per far disperdere le tracce di sé.
Sarebbe interessante a questo punto chiedersi come Steven Spielberg sia arrivato a Minority Report. La differenza non è solo di atmosfere, di luci, di colori, ma risiede anche nella costruzione stessa del personaggio. L’archetipo dell’eroe è capovolto, John Anderton, agente tossico che passa dall’essere cacciatore a preda, è un padre in lutto pieno di rancore e smanioso di vendetta. E, cosa ancora più sorprendente, l’attore scelto per interpretare il ruolo in questione è Tom Cruise, forse uno degli ultimi divi per eccellenza dello star system hollywoodiano dagli anni ’80 a oggi. Quello stesso Cruise che già dagli anni novanta procede a un vero e proprio smantellamento della sua immagine iconica (dalle notti bianche di Eyes Wide Shut al killer grigio di Collateral, dal volto deforme di Vanilla Sky al Les Grossman di Tropic Thunder). Eppure è il suo personaggio a rivelarsi il più struggente, il più empatico del film attraverso una formula paradossale: il desiderio di cambiare il futuro è solo il riflesso di un sogno più grande, quello di poter alterare il proprio passato. Di poter cambiare la storia, vivendo in un’ucronia dove suo figlio non è mai morto: pensiamo alla splendida visione dall’oltretomba di Agatha, la pre-cog principale, che riferisce a Anderton e alla moglie le parole del figlio che in un indefinito hereafter continua a vivere. Eppure passato e futuro ci appartengono, costruiscono la nostra identità, non devono e non possono essere alterati.
Ciò che è entrato in scena prepotentemente nel cinema di Spielberg del nuovo millennio, inaugurato dal fondamentale A.I., è quello strano, inquieto, disperato sentimento della morte. Non che prima non ci fosse stato, ma l’elaborazione del lutto qui si fa motore stesso della narrazione. Se in A.I. la morte era fenomeno tangibile, polo attrattivo, condanna stessa di ogni immagine, era anche l’unica vera possibilità di essere umani. In Minority Report il cinema di Spielberg che abbiamo sempre amato acquisisce una luce diversa: si fa ologramma, passato irripetibile, avventura ormai conclusa. La fine è già avvenuta, il mondo è crollato, non rimangono che schegge impazzite: John Anderton ha perso suo figlio. Il 2054 di Minority Report allora si trova già a un passo oltre la fine e sogna, come mai prima di allora, un nuovo inizio. L’unica immagine calda del film è infatti quella finale, dove i tre pre-cog sono finalmente lontani dal mondo, in un casa remota dove poter ricominciare finalmente a vivere.