Dove eravamo rimasti
Grazie ad un cast perfetto e al talento registico di Jonathan Demme, quella che rischiava di essere l'ennesima parabola familiare diventa invece un film vivo e pieno di sentimento.
L’ultima volta ci aveva lasciati con un capolavoro, Jonathan Demme, un omaggio straordinario al potere catartico del cinema, inteso come sogno e liberazione. Era il 2013 e il Festival di Roma annoverava tra i suoi film Fear of Falling (divenuto in seguito A Master Builder), dramma ibseniano reinventato e traslato da un regista che, arrivato alla soglia dei 70 anni, non cessa di portare avanti una carriera anarchica e incontenibile, refrattaria ad ogni catalogazione.
Non sorprende allora che dopo i documentari su Jimmy Carter, Neil Young ed Enzo Avitabile, dopo la delicata emotività di Rachel sta per sposarsi e l’onirismo di A Master Builder, ci sia posto infine per una storia più canonica e impostata, un racconto di redenzione familiare che scorre come un treno lungo binari solidi e convenzionali. Nasce allora Dove eravamo rimasti, in cui Demme si confronta con la brillantezza da manuale della scrittura di Diablo Cody e vi porta una Meryl Streep al meglio del suo istrionismo.
In fuga dalle responsabilità familiari in nome di una vita da rock star, Ricki Rendazzo è un personaggio che si inscrive in una lunga tradizione di eroi hollywoodiani, figure borderline in cerca di quella seconda occasione che possa ricucire lo strappo del tessuto familiare. Del resto non cercava nulla di diverso Kym di Rachel sta per sposarsi, ex adolescente tossica con il fantasma del fratellino morto sulle spalle, ma l’intimismo e la delicatezza del film precedente non sono certo nelle corde di Diablo Cody. L’autrice di Juno infatti trova in Ricki l’occasione ideale per confrontarsi con la tradizione a modo suo, rispettandone tutte le convenzioni in un percorso che non lesina brillantezza e umorismo ma non corre neanche alcun rischio. Tutto scorre come deve, tra frecciatine facili al perbenismo borghese ed exploit femministi incollati un po’ a forza, ma grazie al talento di Demme e ad un cast che gira alla grande Dove eravamo rimasti è un film capace di trasformare questa prevedibilità in forza, in una classicità hollywoodiana nella quale ogni elemento trova il suo posto, per quanto convenzionale.
Consapevole di questa situazione, Demme gioca infatti di passione e mestiere, mettendo in campo il suo amore per la musica e il grande talento che ha nella gestione degli spazi e nella direzione degli attori. Fenomenale ad esempio come riesca a imbastire la cena a più voci in cui Ricki rincontra dopo anni i suoi figli maschi, oppure l’arrivo di lei nella casa borghese della sua ex-famiglia. Non per niente tra i momenti più belli del film c’è poi la serata passata in casa da Ricki, marito e figlia, figure ormai lontane ma nonostante tutto alla ricerca di una loro intimità, quella stessa che la Kym di Anne Hathaway rincorreva con la sorella e il padre.
Affianco a tutto questo e a lunghe sessioni di musica suonata realmente sul set, Demme trae il meglio da un cast di cui Meryl Streep è solo la manifestazione più evidente; l’attrice indossa il suo personaggio come un guanto ed evita ogni rischio di overacting, ma comunque attorno a sé ha un tris d’assi formato da Kevin Kline, Rick Springfield e Mamie Gummer. Quest’ultima in particolare, figlia della Streep dentro e fuori dal film, suscita le emozioni più intense, mentre Ricki attraversa tutto il film senza svelare mai tutta sé stessa.
Del resto il meglio della scrittura di Cody forse sta proprio nella sua volontà di non dire tutto, di illustrare personaggi coinvolti in crisi lunghe decenni senza dare allo spettatore tutte le indicazioni per orientarsi. Conosciamo poco o nulla del passato familiare di Ricki, il suo orientamento politico e il disagio per l’omosessualità del figlio ce la rendono anche più lontana, e nonostante questo seguirne la parabola è un piacere, nella sana sospensione del giudizio di un film che ci invita a conoscere senza giudicare.