Heart of the Sea - Le origini di Moby Dick
Nonostante qualche caduta retorica quello di Ron Howard è oggi un cinema fieramente anacronistico, grande spettacolo all'insegna del racconto per immagini.
Nel suo classicismo rigoroso e lineare, in cui la narrazione è anzitutto questione di intelligibilità logica e l’immagine è al servizio della storia e del carattere dei personaggi, Heart of the Sea - Le origini di Moby Dick è un film inevitabilmente anacronistico, ideale liquido di contrasto da iniettare in un cinema americano che oggi nutre il proprio spettacolo di forme ibride e polifunzionali, ben lontane dalla cristallina epica di genere che attraversa con forza l’ultimo film di Ron Howard.
Nel mare della Hollywood contemporanea questo cinema così nitido nella sua declamazione retorica e certosino nella confezione formale appare davvero come la balena bianca di cui è stata vittima la baleniera Essex, eccezione fuori tempo massimo di un cinema capace di unire con mestiere spettacolo e storia nelle loro accezioni più basilari, essenziali. Il cinema come industria popolare del racconto, come emozione da far brillare e sbattere gli occhi.
Sempre più quello di Ron Howard si configura come un cinema duale fatto di coppie in contrasto dicotomico tra loro.
Il primo della serie fu lo splendido Frost/Nixon, che ad oggi rimane il suo miglior film, e a seguire il potente Rush, di cui Heart of the Sea sembra essere da molti punti di vista la riscrittura marinaresca. Nel rapporto tra il capitano George Pollard (Benjamin Walker) e il primo ufficiale Owen Chase(Chris Hemsworth), individualità opposte ma accomunate dalla medesima ossessione, è facile infatti ritrovare il legame che ha unito Niki Lauda a James Hunt, personaggi costretti a collimare tra loro spinti dal proprio ego e da un’inesauribile sete di affermazione. Rapporto simile a quello che Heart of the Sea si limita a tratteggiare, con un uso molto intelligente del meta-racconto, anche tra Herman Melville e Nathaniel Hawthorne, in cui il primo ci viene mostrato come uno scrittore agli inizi della sua carriera e in cerca del romanzo che merita di creare, mentre il secondo è ormai riconosciuto come il padre della moderna letteratura americana. Tuttavia rispetto al passato Heart of the Sea pone al centro del racconto un terzo fattore, all’ombra del quale i dissidi tra gli uomini appaiono meri litigi infantili di chi crede di poter esercitare un controllo che non ha. Si tratta ovviamente della grande balena bianca, la creatura mostruosa resa simbolo universale da Melville e che qui incarna soprattutto la forza indomabile della Natura, potenza vendicativa e implacabile impegnata ad insegnare all’equipaggio della Essex la più dura delle lezioni. Difficile del resto seguire e farsi coinvolgere dall’epica e dal grande respiro navale del film e non risvegliarsi con un brusco contrasto nel momento in cui tutte quelle gesta convergono verso la mattanza dei cetacei. La stessa amarezza che si affaccia, anche se solo per un attimo, nello sguardo del primo ufficiale Chase, per il quale la caccia alla balena è chiaramente soltanto il mezzo che il suo contesto industriale gli ha imposto per vivere e dare forma alla propria ambizione. Quelli di Heart of the Sea sono comunque uomini che si calano dentro la testa di gigantesche creature marine, rese corpi senza vita da un’industria che Howard decide di raccogliere in un’unica scena dal sapore nettamente infernale, demoniaco. La loro ricerca di epica e gloria è maledetta in partenza, marchiata da un sistema che si nutre della Natura e pretende di possederne le spoglie. Ma l’ambizione e il controllo umani hanno limiti da non valicare, pena la follia e il precipitare dell’animo umano nella più cupa delle maledizioni.