Ecce Ubu

Originale esperimento cinematografico che nasce dal montaggio di filmati di repertorio, Ecce Ubu è diretto da Luca Ferri, artista poliedrico che si occupa di cinema, arte e letteratura. Nato a Bergamo nel 1976, l’autore ha all’attivo alcuni titoli tra corti e lungometraggi realizzati con la Lab80film, interessante realtà produttiva e distributiva operativa già dalla fine degli anni Cinquanta, impegnata soprattutto nella promozione del cinema d’autore. E’ proprio dall’archivio “Cinescatti” della Lab80film che il regista seleziona una sessantina di scene in super8, differenti per soggetti e ambientazioni: filmati di viaggio (monumenti e paesaggi), homevideo familiari e privati (scene di vita quotidiana), immagini di animali esotici e non (un gruppo di tori in un’arena, una tigre in gabbia), e ancora città, prati, spiagge. La peculiarità del film è quella di essere costruito sulla base di una struttura rigidamente matematica: la successione di sessanta scene si ripete infatti per dieci volte, ma ogni volta la durata delle singole scene aumenta. Così, se la prima volta vediamo sessanta immagini che durano un secondo ciascuna, la seconda volta vedremo le stesse sessanta immagini che dureranno però due secondi ciascuna, e così via fino ad arrivare a dieci secondi per ogni immagine. In coda, l’apparizione grottesca di un uomo che sta immobile davanti alla macchina da presa per alcuni minuti, così da far arrivare la durata complessiva del film a un’ora esatta.

Il percorso di Luca Ferri è senza dubbio quello di un autore che concepisce il cinema come mezzo espressivo libero e personale; con Ecce Ubu la sperimentazione sembra essere una prerogativa che esclude completamente una concezione della dimensione cinematografica come spazio di narrazione e preferisce invece – in maniera decisa e radicale, quasi provocatoria – ricercare l’essenza primigenia del “mezzo-cinema”: catturare e congelare il tempo per reiterare, potenzialmente all’infinito, una realtà che trasfigura in questo modo in qualcosa di artefatto e diviene un simulacro, un doppio di se stessa, sottratta per sempre al processo irreversibile di deterioramento imposto dallo scorrere del tempo. Il principio che il regista sembra voler incarnare nel film richiama quello messo a fuoco con perizia e acume dalle parole illuminanti di André Bazin nel suo saggio Morte ogni pomeriggio: «Io non posso ripetere un solo istante della mia vita, ma uno qualsiasi di questi istanti il cinema può ripeterlo indefinitamente davanti a me»[1]. Ecco allora che Ecce Ubu diventa un’indagine ontologica sulla natura del cinema, un’opera metacinematografica più simile a una dissertazione dal sapore filosofico che a una prosa o a una poesia. Inoltre, nonostante la costruzione rigorosamente matematica, il singolare lungometraggio di Ferri riesce a non essere freddo e asettico, perché conserva e trasmette tutto il fascino del super8, con le sue immagini pastose, sporche, a tratti incerte: un’estetica che in un certo senso ha il potere di ridefinire il cinema come luogo del ricordo, della nostalgia e della memoria.

Autore: Arianna Pagliara
Pubblicato il 19/08/2014

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