Full Time - Al cento per cento

di Éric Gravel

Il film di Éric Gravel inscena la schiavitù del tempo di lavoro in una delle raffigurazioni più tangibili che si ricordino sullo schermo.

Full Time di Éric Gravel

Il lavoro è questione di tempo. Anzi, di più: forse l’intera organizzazione sociale, il regime capitalistico, lo sfruttamento dei ricchi sui poveri sono tutti questione di tempo. Insieme al corpo e alla mente, è proprio il tempo ciò che si ruba, quello che viene sottratto alla vita delle persone rosicchiando anche i bordi, asciugandolo gradualmente come il letto di un fiume finché non resta nulla. Il lavoro prende tutto il tempo: e allora il cosiddetto tempo della vita? Solo gocce, frammenti, istanti veloci da ritagliare nel macro-tempo divorante dedicato all’occupazione. «Non puoi mangiare o fare sesso otto ore: il lavoro è l’unica attività umana che dura otto ore», diceva il documentario Workingman’s Death del compianto Michael Glawogger. Magari fossero solo otto ore. E proprio l’impiego del tempo è il titolo di un film di Laurent Cantet (L’emploi du temps), in italiano A tempo pieno, che racconta di un uomo licenziato che finge di recarsi a lavoro per ingannare la famiglia, ma ha il problema di come passare il tempo, perché il rovescio della medaglia è l’altra grande questione dell’oggi, avere troppo tempo. All’ultima Berlinale, poi, una rivelazione è stata Unrueh di Cyril Schäublin, racconto anarchico in una fabbrica di orologi svizzeri nel tardo Ottocento: se venisse abolito il tempo, si chiedono questi operai che producono lancette, senza un tempo del lavoro come farebbero i padroni a sfruttare?

Il problema del tempo torna con forza in Full Time - Al cento per cento di Éric Gravel, in originale À plein temps (appunto). Il tempo è la gabbia in cui si dibatte Julie, una persona normale, una madre single di due figli costretta a lavorare per mantenerli: all’inizio la vediamo che si sveglia nella sua casa fuori città, è ancora notte, e si reca a lavoro a Parigi nell’hotel di lusso in cui è impiegata, non prima di lasciare i due bambini alla generosa vicina di casa. La sua giornata è un movimento vorticoso: prende treni, arriva al lavoro, pulisce le stanze di clienti che sporcano (simbolicamente e letteralmente: di merda), concretizza in sé il contrasto tra potenti e deboli, tra coloro che “servono” e quelli che vengono serviti, i quali non si vedono mai. Opera in silenzio e velocità, come tutte le lavoratrici dell’hotel: “La regola è essere invisibili”. Fa una corsa a ostacoli per i ritardi dei treni, bloccati da un grande sciopero, problematizzando così il nodo sociale: la lotta per migliorare le condizioni finisce per mettere in difficoltà proprio i pendolari, ossia i più fragili, lavoratori come gli scioperanti ma ancora meno tutelati, nel classico ouroboros, il serpente che si morde la coda. I piccoli se le danno tra loro, il capitale è il nemico invisibile. Insomma Julie corre tutto il giorno e infine rientra a casa stremata, ritirando i figli solo di notte, senza poter assolvere alle funzioni di madre e rischiando di generare difficoltà per i bambini. La parabola si può verificare a confronto col suo negativo, Un altro mondo di Stéphane Brizé, che curiosamente esce in sala insieme a questo film e ne offre uno scavalcamento di campo: come qui c’è una lavoratrice umile, là c’è il dolore di un dirigente, due rovesci del lavoro 2020.

Full Time di Éric Gravel

In realtà Julie non sarebbe una waitress, bensì un’operatrice di marketing che è stata licenziata dall’azienda dopo una delle molte crisi del contemporaneo. Rimasta disoccupata, ha accettato la decrescita infelice come i protagonisti di Giorni e nuvole di Silvio Soldini. È retrocessa su posizioni operaie pur di lavorare: anche ora prova a rientrare nel settore, sostenendo colloqui, mandando curriculum. All’insegna del pudore sociale: la donna inserisce un buco negli anni che corrispondono al periodo da cameriera, mai mostrare debolezza, mai rivelare un impiego umile agli occhi del mercato. Ma anche tornare al vecchio lavoro non è facile, assentarsi per fare una interview è già un’impresa. In tal senso il film di Éric Gravel inscena un altro aspetto, quello più loachiano di tutti: il ruolo della rete degli amici. La protagonista, stretta nella morsa e senza tempo, deve attivare un intreccio di favori per poter sopravvivere, dalla vicina di casa alle amiche e colleghe; viene mostrato il meccanismo di protezione solidale, vista l’assenza dello Stato, e insieme i suoi limiti, perché non si può affidarsi completamente agli altri, un’assistenza solo personale e non pubblica in ultima istanza non potrà funzionare.

Detto così, il racconto di Full Time potrebbe sembrare l’ennesimo film sociale, giusto e condivisibile ma allo stesso tempo obbligato, talmente esatto da diventare sottinteso. Non è così. Il regista riesce ad evitare la retorica attraverso il movimento della macchina da presa: sin dall’inizio segue la protagonista, la sempre magnifica Laure Calamy, non nel consueto pedinamento ma creando un vortice, una confusione, un ritmo indiavolato e isterico che vuole ricostruire le giornate di lavoro della donna. Ci riesce: da subito siamo trascinati in mezzo al gorgo, veniamo sballottati nell’odissea ordinaria e banale della lavoratrice madre, con lei proviamo ad arrivare a fine giornata. E, soprattutto, l'autore mette sullo stesso piano stilistico il lavoro retribuito e la cura dei figli, ovvero li gira allo stesso modo: suggerisce mediante l’immagine che una donna ha due occupazioni, in una delle raffigurazioni più potenti che si ricordino sul tema.
Grandi istant classics hanno catturato il lavoro nei nostri anni (Brizé, Guillaume Senez, lo stesso Loach), ma finora non si era visto un film che rendesse così tangibile la schiavitù del tempo di lavoro. Quello di Julie, come quello di tutti: ecco perché nel finale, quando la donna ottiene un nuovo impiego, regala un ossimoro, ovvero sorride piangendo. Sorride perché avrà una migliore occupazione, e piange perché continuerà a non avere tempo, non fermarsi, non vedere i figli. Nel contrasto si racchiude il mondo del lavoro oggi, il suo aut aut spietato, la beffa per cui giri e rigiri ma perdi comunque.

Autore: Emanuele Di Nicola
Pubblicato il 29/03/2022
Francia
Regia: Éric Gravel
Durata: 88 minuti

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